by Ilaria Betti – Huffington post Italy
Il coronavirus ha costretto centinaia di aziende cinesi a correre ai ripari, nel vero senso della parola: per evitare il contagio, decine di dipendenti hanno smesso di andare in ufficio e hanno iniziato a lavorare da casa. Secondo Bloomberg, è in atto “il più grande esperimento di telelavoro al mondo”: un test che – se darà i suoi frutti – potrebbe cambiare le sorti del nostro modo di lavorare in futuro. Mentre il fatturato di società che offrono videoconferenze come Zoom è aumentato nel giro di pochissimo, c’è chi spera che l’esempio possa essere imitato anche da Paesi come l’Italia. Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università “La Sapienza” di Roma, e fondatore della SIT, Società Italiana Telelavoro, per la diffusione del telelavoro e la sua regolamentazione sindacale, spiega ad HuffPost perché lo “smart working” fatica ad affermarsi, pur essendo “il modo migliore di lavorare”: “I vantaggi del lavorare da casa sono inquantificabili, ma in Italia c’è una resistenza patologica al cambiamento”.
“La vicenda del coronavirus – afferma – mi ricorda quella dell’imprenditore e dirigente Giovanni Alberto Agnelli, il quale morì giovanissimo, nel 1997, a soli trentatré anni per un tumore. Quando era malato e non riusciva più ad andare in azienda disse che aveva scoperto l’importanza del telelavoro. La stessa cosa sta succedendo a milioni di cinesi che sono costretti dalle circostanze a lavorare da casa: finalmente scopriranno che è il modo di migliore di lavorare”.
Visionario e apripista, De Masi da tempo è pronto a scommettere sullo “smart working”, anche se le sue aspettative sono state deluse: “Già quarant’anni fa, quando creai la SIT, la Società Italiana Telelavoro, ero convinto che dì lì a poco il telelavoro si sarebbe affermato nella nostra società come metodo di lavoro principale. All’epoca non c’era Internet, ma c’era il telefono: credevo che con il telefono si potessero svolgere diversi lavori senza necessità di recarsi in ufficio. Mi illudevo che, essendo una cosa razionale, il telelavoro si sarebbe affermato subito. E invece no”.
Nel 2019 erano 570mila i “lavoratori agili” in Italia, in crescita del 20% rispetto al 2018: è quanto riporta uno studio condotto dall’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano. Ma, stando ai dati dell’Eurostat, il nostro Paese è ancora sotto la media europea per utilizzo dei vantaggi forniti dalla tecnologia. “In Italia c’è una resistenza al cambiamento che definirei patologica – sostiene il professore -. Non riusciamo ad abbandonare l’idea di dover per forza lavorare da un’altra parte, di doverci spostare da casa per raggiungere l’ufficio. Questa abitudine si è consolidata nel corso dei duecento anni di società industriale. Prima dell’avvento dell’industria, si lavorava a casa: il medico lavorava a casa, l’avvocato lavorava a casa, anche l’artigiano lavorava a casa. Poi è arrivata l’industria, con le sue macchine potenti e fragorose e gli operai hanno iniziato a spostarsi per raggiungerle. L’andirivieni tra casa e lavoro si è così insediato nella nostra mentalità e persiste tuttora, anche se viviamo in un’epoca in cui la maggior parte dei lavori potrebbe facilmente essere svolta da remoto”. “Ovviamente non tutti i lavori si possono ‘telelavorare’: il pompiere deve correre dove è l’incendio, il chirurgo deve stare in sala operatoria, il cassiere deve essere sul posto. Ma il 60%-70% della popolazione svolge un lavoro da ‘impiegato’, ovvero manipola informazioni che grazie a telefono e Internet potrebbero essere trasferite da un posto all’altro a costo zero, senza bisogno di recarsi ogni giorno in un luogo fisico diverso dalla propria abitazione. Penso, ad esempio, a tutte quelle persone che lavorano nei Ministeri: potrebbero benissimo farlo da casa, dal bar, dalla spiaggia”.
“Ormai ci siamo assuefatti a questo modo di lavorare, siamo talmente abituati a fare chilometri ogni giorno per raggiungere il lavoro che la possibilità di non farlo ci sembra impensabile – aggiunge -. Abbiamo imparato a dividerci tra due luoghi principali: la casa, in cui tornare a dormire, e il posto in cui lavoriamo. A questa visione ‘distorta’ contribuisce anche la mentalità dei capi: con il lavoro da remoto non è possibile controllare il lavoratore momento per momento mentre lavora, ma solo esaminare il risultato finale. Questo per alcuni capi è inaccettabile: hanno quella che io chiamo la ‘sindrome di Clinton’, abituato ad avere la stagista sempre pronta nella stanza a fianco. Ecco, molti boss italiani ragionano allo stesso modo: vogliono avere i dipendenti sottocchio, non si fidano. Nel telelavoro invece non conta il processo, ma l’obiettivo: non importa se il dipendente preferisce lavorare di notte, al mattino presto, prendersi poche o tante pause. L’importante è che porti a termine il suo compito nel migliore dei modi”.
I benefici sono molteplici: “Lavorare da remoto ha talmente tanti vantaggi che, se ci riflettiamo bene, semplicemente dovremmo prendere e dire ‘ok, da domani lavoriamo tutti da casa’ – continua De Masi -. Prima di tutto, c’è un risparmio notevole di tempo e di soldi. Basti pensare al tragitto che si fa per andare al lavoro: lavorando da casa non si spreca tempo, non si sprecano soldi per la benzina, per l’autostrada, diminuisce la possibilità di incorrere in incidenti. La città è più libera, meno inquinata, si riduce il traffico. Oltre ai vantaggi per l’ambiente, ci sono poi quelli per le aziende: ovviamente se i dipendenti lavorano da casa, le aziende non avranno bisogno di affittare grossi spazi e spendere in questo modo le proprie risorse. Non ci sarà bisogno di sprecare aria condizionata, di allestire le mense per i lavoratori, etc”.
Vantaggi ci sono poi anche dal punto di vista psicologico: “Nel corso del tempo, per scoraggiare questa pratica, si sono diffuse molte fake news, come quella che vede chi lavora da casa ‘isolato’ dal resto del mondo. Non è così: chi lavora da remoto può svolgere il suo lavoro in tutta tranquillità e concentrazione senza perdersi in chiacchiere inutili, può scendere al bar sotto casa per un caffè, parlare con gli altri, rapportarsi con le persone senza essere costretto a passare del tempo con gente che non ha scelto”.
In Cina – favorita anche dal coronavirus – si sta diffondendo sempre di più la cosiddetta “homebody economy”, un tipo di economia “da casa” che va dal telelavoro ai crescenti servizi di streaming on demand, dallo shopping online, dalla consegna diretta di cibo e altri prodotti a domicilio all’offerta didattica e ai corsi di formazione su Internet. Ma qual è la situazione in Italia? Possiamo davvero immaginare una società del futuro in cui in larga parte si lavori da remoto? Secondo il professor De Masi, sì: “Siamo in ritardo rispetto ad altri Paesi – afferma – basti pensare che la percentuale di chi lavora da casa qui è intorno al 3%, in Olanda si attesta al 40%. Però lentamente la cultura dello smart working si sta affermando. Certo, ci vuole più coraggio da parte delle aziende per far sì che il telelavoro diventi il modus operandi principale. È inutile adottare soluzioni a metà, come consentire al dipendente di lavorare alcuni giorni da casa e alcuni giorni in ufficio: in questo modo non si liberano posti, i vantaggi non sono ‘tangibili’. È necessario lasciarsi andare al cambiamento, credere in una società in cui lavorare da remoto non venga più visto come un lusso e chi lavora da casa non venga più giudicato un fannullone o un ‘tagliato fuori’”.