Pena, giustizia, condotta: per un diritto di resistenza civile

by Luigi Placanica, exclusive for The diagonales

Disobbedire alla pena – Studio su resistenza e ingiustizia in riferimento a Francisco Suárez (1548-1617), (Castelvecchi, 2021) di Domenico Bilotti, è l’ultimo lavoro di ricerca dello studioso dedicato alla spinosa questione della condotta resistente, ovverosia il tentativo di circoscrivere le soglie della sua applicabilità e di ricercarne le basi genealogiche nel pensiero moderno sotto le lenti dell’attività scientifica del teologo e giurista Suárez, tra i massimi esponenti della seconda scolastica spagnola. L’orientamento del canonista, la cui sensibilità di approccio è chiaramente influenzata dalla fedeltà al diritto canonico, dalla vita presbiteriale e dalla realtà dell’epoca in cui vive, non è però viziato da fanatismo né tantomeno da pedissequa aderenza all’ordine di appartenenza, dimostrando al contrario realista consapevolezza di muoversi, assieme ai suoi antesignani e i suoi epigoni, sul comune sfondo di una visione simbolica dell’esistere in cui il cristianesimo ha avuto, e continua ad avere, un innegabile ruolo a fondamento della civiltà giuridica occidentale. Nonostante si sia portati a pensare lo sforzo interpretativo, generato sulla scorta della controriforma, degli scolastici spagnoli dei secoli XVI e XVII, come un gigantesco movimento di restaurazione, è innegabile che i giuristi emblema di questo movimento siano stati anche i primi a concepire argomentazioni contro la schiavitù, la guerra, la colonizzazione e, appunto, l’obbedienza alla norma penale.

Confrontando Suárez con i suoi coevi, il suo valore aggiunto appare anzitutto l’innovazione metodologica e destrutturante, introdotta in parallelo al periodo di riformismo della Chiesa cattolica, il fare ampio utilizzo di riferimenti precisi a una pluralità di fonti dottrinali di diversa provenienza, non per forza canoniche, alcune anche risalenti: le copiose ed esaustive citazioni alle opere di chi lo ha preceduto, comprese quelle di autori estranei alla chiesa cattolica quando non addirittura di inclinazione ereticale, dimostrano un’erudizione e una capacità di analisi che lo portano ad interrogarsi, originalmente, anche sugli aspetti più residuali delle relazioni tra comando e obbedienza.
Per capire cosa si intenda con “resistenza”, oggetto dello studio, bisogna anzitutto escludere che questa discenda da un mero atto di concessione del detentore del potere. In ossequio alla valorizzazione, nella dottrina suarista, del particolare concreto, la resistenza parte dall’individuo e si trova sotto un ordine di giustizia che superiorem non recognoscens: il riferimento ultimo di Suárez, che rimane di natura teologico-canonistica, utilizza il sintagma “bene comune”, per giustificare una resistenza di tipo coesivo, a beneficio collettivo. In questo senso la “condotta resistente” si configura come un dovere, oltre che un diritto, rappresentando il momento e la possibilità di dare inizio al nuovo ma in modo tutt’altro che cesorio, in attesa e con l’auspicio che la giurisprudenza risponda derogando al comando in base alle supreme motivazioni culturali, etiche, religiose, ideologiche etc. che muovono la stessa condotta resistente. La resistenza suarista allora anticipa, riconoscendo il valore supremo di alcuni principi (la violazione dei quali può essere ricostruita, discorsivamente, come lesiva del bene comune) i presupposti di una giustizia costituzionale; Suárez sembra confermare, nelle parole di Bilotti, la desiderabilità che le discipline gius-pubblicistiche si adeguino in base alle istanze sollevate dal novero dei destinatari di quelle stesse discipline, configurando il medesimo rapporto dialettico che vede confrontarsi, nel nostro ordinamento, le condizioni materiali di soddisfazione di eguaglianza e libertà delle persone, difese dall’articolo 3 della Costituzione, col dovere di fedeltà alla Repubblica. Il concetto di “bene comune” può così consentire alla legge di perseguire coesione ed impedire il paradosso che il Golem della legge si ritorca contro gli umani suoi artefici, in modo che, decidendo secondo aequitas (principi di giustizia sostanziale), le differenze nell’interpretare fattispecie simili, o addirittura omologhe, possano di volta in volta ottenere soluzioni anche diverse. L’attenzione al caso concreto (lo si vede bene con riguardo alle questioni dell’obiezione di coscienza, della pena di morte, dello spergiuro, e finanche in ambito negoziale) non rappresenta frammentarietà, bensì unitarietà del sistema. In un contesto ancora pre-vestfaliano, l’unitarietà ricercata da Suárez fa sì che il tema della resistenza non si basi solo sull’insolubile incompatibilità della giurisdizione civile con quella religiosa, ma possa trovare giustificazione e tutela all’interno della stessa giurisdizione in cui si manifesta provocatoriamente; in questa visione la norma civile potrebbe essere illegittima a prescindere dalla sua concreta applicazione in un dato ambito e la norma religiosa, lungi dall’essere indisponibile e immodificabile, potrebbe trovare modalità applicative differenti e confrontarsi con norme provenienti da altri ordinamenti confessionali.

La riflessione di Suárez dimostra la sua perdurante validità, oggi, riguardo il tema della legge penale. Laddove -nonostante nelle costituzioni liberali postbelliche sia stato sancito il paradigma della rieducazione della persona attraverso la pena- il discorso sulla detenzione è stato adombrato nella riflessione sul diritto odierna, in uno scenario dominato da una domanda sociale di sicurezza che viene acriticamente sussunta nella produzione di norme penali e nella repressione, la teologia cristiana “illuminata” di pensatori come Suárez rammenta che un ordinamento giuridico che rinuncia a tutelare il soggetto privato di libertà, e lo sottopone a trattamenti inumani e degradanti, non può fregiarsi della qualifica di civiltà del diritto. La pena, pur necessaria in un ordinamento giuridico come misura di una condotta disvaloriale e irresponsabile di chi la subisce, non è tutto: intanto Suárez ammette che la pena rappresenta certo un male, che può affliggere il colpevole in modo non inferiore alla sua vittima anche in presenza di correttezza procedurale; poi anticipa un sistema di pene graduali e alternative sia all’extrema ratio della pena capitale che alla pena detentiva del paradigma contemporaneo, prevedendo persino la possibilità che la disapplicazione o la trasgressione di alcune prescrizioni non prevedano un automatico esito sanzionatorio. L’esigenza di una morale universalistica al di fuori di ogni “umano dispotismo”, sullo sfondo della quale deve necessariamente muoversi l’attività umana di legiferare, se non vuole apparire arbitraria o relativistica, è una conclusione che avvicina il canonista spagnolo anche ai pensatori rivoluzionari ottocenteschi, come dimostrano gli argomenti a favore della necessaria proporzionalità della pena e l’impegno profuso come anticipatore della presunzione di non colpevolezza.

La possibilità di disobbedire alla pena non potrebbe, con ciò, giustificare qualsiasi condotta ribelle, ma concorrerebbe ad assicurare un nucleo di principi indisponibili anche al mutare delle regole umane, che impegnino il soggetto in coscienza. A dimostrazione che il suo pensiero non fonda le relazioni giuridiche tra consociati sulla sanzione, Suárez esclude il carattere “penale” delle leggi che proibiscono o annullano un atto se l’annullamento o la proibizione sono pensati a tutela del “bene comune”. L’informalità di un atto non potrebbe arrivare a inficiare gli effetti benefici che ha pure prodotto, ad esempio, a vantaggio di un minore (mirabile, in Suárez, la dignità recuperata in favore delle soggettività che non si sono ancora manifestate come tali secondo l’ordinamento giuridico, nonché la sensibilità riguardo le categorie vulnerabili), proprio perché questi possono essere ritenuti universalmente desiderabili. Sarebbe il sistema nel suo complesso ad apparire danneggiato da una irragionevole modificazione dei singoli equilibri su cui regge. Questo bilanciamento rappresenta, secondo Bilotti, l’esito più considerevole dell’eredità suarista la quale, pur muovendo dal diritto canonico, rifiuta un ordine dogmatico di gerarchia tra chiesa e potere secolare o una preferenza accordata alla legge divina, approccio tipico dei suoi contemporanei. Muovendo dall’impostazione, innovativa, della possibile fallibilità della legge umana, dei suoi interpreti e degli esiti formali e procedurali della sua applicazione nelle aule di tribunale, il canonista propose un diritto processuale caratterizzato da equità e da un approccio ermeneutico capace di mitigarne gli effetti perversi dell’imprevedibilità e dell’arbitrio, tale da non tradurre la differenza posizionale tra accusa e accusato in assenza di mitezza e dinamicità.

Ed è l’attenzione al caso concreto che caratterizza e valorizza il pensiero di Suárez: così ad esempio, in materia tributaria, il doctor eximius non si limita ad una generica disapprovazione delle pretese patrimoniali dell’autorità, ma condanna l’utilizzo dei tributi per i lussi del sovrano o, in campo militare, per una spesa che non sia a tutela della comunità tutta. Chiaro è come questa visione suggerisca più profili di responsabilità politica e collettiva che di disobbedienza orientata a vantaggi precipuamente individuali. Si tratta, per di più, di un tipo di disobbedienza che si incardina intorno a un principio ante litteram di razionalità discorsiva anziché giustificato, aprioristicamente, da pretese metafisiche o assiologiche (che persuaderebbero, quelle sì, ad accettare il profilo formale della norma e non la sua ratio ai fini del discorso pubblico). L’atto di resistere diventa la misura eccezionale le cui forme hanno il fine di salvaguardare nient’altro che lo stesso sistema entro il quale si rendono necessarie, come mezzo per ristabilire un ordine di giustizia violato; ciò porta Suárez ad escludere, in linea di massima, la soluzione del regicidio, comune alle tendenze monarcomache più estreme, contemplando viceversa la possibilità di appello al pontefice. Ancora, nella trattazione sul bellum iustum, si rifuggono posizioni assolutistiche in favore di un ragionamento argomentativo ai fini dell’individuazione di una soluzione concreta (e dove, comunque, le conclusioni a cui si arriva non sono accettate come conclusive ma beneficiano dell’apertura alla loro riconsiderazione). Messa da parte la manichea condanna indiscriminata della guerra, Suárez giustifica quella a fini difensivi con l’imminente urgenza di difendere beni minacciati (la difesa della fede), mostrandosi al contempo lungimirante, nei confronti degli altri scolastici o dei giusnaturalisti nordeuropei, nel limitare il più possibile la nozione di guerra giusta e circoscrivendola al solo ambito di applicabilità della ratio naturalis (da vagliare alla luce di implicazioni di carattere sostanzialistico), con ciò escludendo la guerra che giustifica sé stessa con la lotta agli “infedeli” sulla base della definizione di “retta dottrina” data dal sovrano cristiano di turno.

Questo pregevole studio ha il valore di riattualizzare il pensiero del gesuita di Granada, afferrando, nel capitolo conclusivo, le implicazioni dinamiche dell’esegesi giuridica come pratica per vivacizzare il dibattito odierno sui temi dell’abuso di potere, della tutela delle soggettività vulnerabili, dei profili di formalità delle condotte poste in essere dal potere e delle loro omissioni, dell’obiezione di coscienza e perfino di istituti giusprivatistici, come quello matrimoniale, con esiti niente affatto scontati. La riflessione di Bilotti su Suárez, attraverso un serrato confronto critico con gli altri classici del pensiero politico, giuridico e filosofico, dischiude la prospettiva di un diritto di resistenza concepibile anche tra le maglie strette dello stato amministrativo contemporaneo e delle nuove forme di identitarismo e confessionalismo statale, evidenziando quanto mai necessario, nello scenario globalizzato odierno, un costante dialogo tra scienza giuridica e critica sociale.


Luigi Placanica si occupa di Relazioni Internazionali. Laureato in Scienze Politiche all’”Università della Calabria”, con la tesi “Quando i giudici parlano di Dio” grazie alla quale ha vinto l’edizione 2020 del Premio di laurea UAAR nella categoria “discipline giuridiche”. È appassionato di cinema e osservatore interessato dei fenomeni estetici, politici e culturali che rivelano paradossi e continuità nell’epoca post-globale.

Domenico Bilotti collaborate with The diagonales.  He is adjoint professor of “History of Religions” at the Magna Graecia University of Catanzaro (South Italy) and holder of courses at the Master’s in “Cultural Heritage and Ecclesiastical Heritage” of the same university. The rest of the time he observes, reads, travels, attends soccer stadiums.