Il Natale di un messia diverso

by Stefano Pantezzi
Il testo è stato presentato il 20 dicembre 2024 nella Chiesa di Santa Margherita a Trento, nel corso di un reading musicale.

Il Tunnel

L’aria maleodorante è dappertutto. Gli è stata tolta l’aria, prima dell’acqua e della terra, perché, ricordo si diceva, quelle si vedevano e si sarebbero potuti lamentare. L’aria no, vi hanno rinunciato volontariamente scavando i tunnel sotto l’intera Striscia in totale cecità, come le talpe. Io qui cammino, mentre qualcuno spinge, e con le mani legate alle caviglie posso avanzare solo come fa il cammello, senza incrociare il passo. Vogliono dirmi che non sono umano? Dio, quanto poco sanno!

Passiamo attraverso zone buie per entrare in camere più grandi e slarghi dove i riflettori accendono un sole freddo, potente e disarmante. Ogni tanto ricevo un colpo secco al coccige con una qualche punta metallica o un bastone.

Avanzo.

Ora il dolore acuto spunta da un orecchio, quello destro. Non me l’aspettavo. Ed è effettivamente devastante, non ci sono abituato. Passa, ma finché c’è distrugge ogni possibile controllo della mente. Imparerò. Loro lo hanno fatto sempre, più degli altri che pure, anche se parecchio tempo fa, hanno sperimentato peggio. Non è addestramento, ne son certo. È Storia, o almeno storia di adattamento e di sopportazione. Comunque ora sono in piedi contro un muro gocciolante che sa di mare marcio e imputridisce schiena e lombi. Ma è così che deve essere, non poteva funzionare in altro modo.

Passano spesso a gruppi di tre o quattro uomini. Hanno pantaloni bruciacchiati e increspature di polvere di gesso e di cemento. Scompaiono, senza guardarmi, dietro qualche porta o per qualche diramazione che non so. Non mi vedono. Del resto non potrebbero: difficile immaginare qualcuno più nascosto di me.

E io sono in ginocchio: sono caduto, così come è finita a terra o sottoterra per una volta almeno la maggior parte della gente qui dentro la Striscia dove tutto o quasi si trascina ormai, e quelli che riescono ancora a camminare sfilano via e si infilano dentro i cunicoli indaffarati e stanchi. Soltanto gli occhi sono ancora vivi, e bruciano.

lo che lo so li guardo e li capisco.

Così va avanti fino a quando arriva quello giusto, che si avvicina a me e giunge le mani in un gesto rapidissimo. “Inshallah!” sussurra. Poi mi allunga una pedata, non violenta. Non fa male. Ha fatto bene. Io non lo guardo. È strano che non mi abbiano bendato; ma forse no, non avrei da riferire nulla che non sia noto già fuori di qui. E ciò che veramente avrei da confessare non lo rivelerei.

L’Acqua

Sento odore di ristagno, forte, intenso, ora. Odo un rumore d’acqua libera che scorre coprendo il ronzio delle condotte sotterranee. Cosa fanno? Infilano davvero l’acqua del mare dentro ai tunnel? Ma non lo sanno che queste gallerie senza geometria sono talmente antiche che non c’è luogo in Palestina che non possa essere raggiunto? Ci sono pozzi che arrivano all’inferno, dove l’acqua può cadere e immergersi così profonda che alla fine ci ingoierebbe tutti quanti: il mare spinge.

Io lo so e non dico.

Odo un fragore questa volta. Che cos’è? Era un porticina credo, quella; ma è stata spalancata con una spinta così forte che è rimasta lì divelta a terra, e tutto sembra arteria del medesimo sistema.

L’acqua invade, colpisce e poi erode.

Poi vedo altro d’improvviso. Questa che partecipa è acqua chiara, trasparente, limpida, tanto che mi fa intravedere chiaramente il volto che ha strappato al centro di Israele e ha gettato qui: Ariel Sharòn, la foresta.

Quanto era semplice il tuo nome, quando ti chiamavamo Arik. Non hanno capito ciò che hai cominciato, né il perché. Io invece conosco molto bene questo tuo ritratto che ora è dentro il mare ed è arrivato qui da me: era a Palazzo, là dove è iniziato il movimento che io sto completando. Io ero altro ed ero lì; come Begin, come Rabin, come Shamir. Ed ora siamo altro e siamo qui.

Noi lo sappiamo, e loro non lo sanno.

Abbiamo penetrato quei governi per rinascere: non c’era un altro modo per venire ad esistenza e uscire finalmente da queste catacombe. Volevano la Resa? Be’, l’avranno. E anche il trionfo. L’hanno imparato dai Romani, duemila anni fa, quando noi eravamo piccoli; e i miei minuscoli, tanto che ogni Popolo su questa Terra poteva facilmente masticarci.

Si impara sempre dai propri aguzzini. Dagli amici non si impara niente.

Ma se Arik è qui, vuol dire che qualcuno ci ha tradito lì dentro il palazzo. Anche se non ha capito nulla di come agiamo noi. Credono di aver ingannato i Filistei e invece i Filistei si son bevuti loro.

Riguardo un film dentro alla mia mente, quello con i Bounty killer che parlano di noi:

– “E adesso perché non ci leggi un po’ di Bibbia, Sally?
Certo, Big George, lo faccio molto volentieri… Quel giorno il Signore consegnerà te nelle mie mani, e io ti castigherò, e ti staccherò la testa dal corpo, e abbandonerò le carcasse dell’orda dei gretti filistei agli uccelli dell’aria, alle bestie feroci della terra. Amen.
Amen. Chi erano i filistei?
Erano un branco di luridi sporcaccioni…

E me la rido, anche se non è bello ridere con tutti questi bimbi morti male. 

La Strada

Odore di Gerusalemme.

Quello della sabbia, così antico che si può ancora percepire nel travaglio della Storia che ci partorisce e non lo sa. Quello pungente dell’asfalto fresco e quello dolce e acre del cemento attraversano perfino il nostro naso anestetizzato dalla polvere e bruciato poi dalla pirite. Pochi hanno scarpe, quasi tutti sono a piedi nudi, e molti si trascinano sopra protesi arrangiate: gambe che c’erano e non ci sono più.

Spingiamo nuovamente carrettini come un tempo, fagotti sulle spalle. Sappiamo come fare; abbiamo imparato a muoverci così. E si va a piedi, chi ce li ha; ruote di legno e ferro, ruote di carne offesa.

Noi si va.

Dalle spiagge devastate a Nord e a Sud, dalle macerie di migliaia di edifici che fino a ieri erano patria e galera, dagli ospedali e dagli atenei di un mondo che sembrava esserci ma ora non c’è più. E crediamo con ferocia che debba ancora nascere davvero.

Io sono in mezzo a loro, camuffato tra la mia vera anima e una faccia differente.

Lungo è il cammino fino al Muro, ma anche questa volta lo troviamo aperto. Siamo un numero sterminato di persone, Israel lo sa, e sa che abbiamo armi sotto i caffetani logori, che non han visto e non sapranno mai vedere. Questa marcia orgogliosa e disperata io non guido, né mai vorrei; io sto in disparte, nascosto accuratamente in mezzo alla moltitudine dei Filistei che sono deportati. Non potevo essere lasciato sottoterra a Gaza o in Israele.

Nulla di me sapete, anche se io so tutto di voi.

No, non andremo a Gerusalemme. È incredibile come in tutta questa gente il timore si mischi con l’orgoglio: vorrebbero finire proprio là, schiavi e invasori, sconfitti eppure vittoriosi ritornare a casa. Ma non sarà così. La sorte è un’altra. Dall’antica capitale in Palestina arriverà solo il suono del vento, da lontano, portato da questa aria bollente e secca che si muove, sola difesa contro le epidemie che altrimenti già ci avrebbero sterminati tutti.

Intanto camminiamo, come si può, attraverso il territorio di Israele che un tempo era davvero terra degli ebrei: attraversiamo la Giudea, verso il deserto dell’interno, abbandoniamo il mare. Verso la morte o verso una nuova vita. Io lo so, o credo di saperlo. Altri lo sanno.

Solo i Popoli non sanno ancora nulla. Per ora fuggono. Poi, chi lo sa.

La Terra

Tende, tende, tende, tende.

Se le possiamo chiamare ancor così, che sono stracci appiccicati male ormai, cotti da troppo sole e sfilacciati dal randagismo interminabile che il Diavolo sospinge senza fermarsi mai.

Ci fermeremo noi qui, tra queste sabbie. Noi che siamo terra in movimento, terra sottratta che non c’è, che siamo aria e che troviamo appena un po’ di vita quando si respira il freddo della notte che qui, più ancora, cade improvvisa sui nostri cuori devastati e stanchi.

Ci fermeremo noi e il tempo.

Loro sono stati noi, noi siamo loro, e loro saranno noi.

Il Diavolo no che non si può fermare; diventerebbe Dio e Dio non glielo consentirà. È l’anima che si stanno disputando. Ne esiste una soltanto e la vogliono sempre tutta e solo per sé.

Noi non vogliamo nulla, non l’anima nostra nè la loro. Neanche le abbiamo più, le abbiamo già vendute. Non saremmo qui altrimenti, con le stesse sofferenze e le stesse fantasie.

Popoli erranti in cerca di un rifugio che non c’è.

E io che li ho condotti a questo passo, caricandomi un cedro sulle spalle, fragile di troppi anni di menzogne e vecchio, vedo soltanto sabbia e teli logori. E sole privo di pietà di ombra e vento secco. Non mi chiedo se abbia fatto bene o male. A questo punto non ce n’è motivo, si può andare solo avanti perché non c’è più un dietro a cui tornare. Altri penseranno alla riscossa o forse alla vendetta, pochissimi penseranno a perdonare.

Ma prima che tutto ciò si muova occorre che la resurrezione vada a compimento: come la morte, dalla quale prende vita. Da parte mia, serve la confessione di ciò che sono stato e del perché. Ma in quale modo farlo e a chi?

Intanto è terra di Giordania che ci accoglie. Qui ci raccoglieremo, numerosi come le cavallette. E non andremo mai più via fino alla fine del tempo di Israel.

I Filistei dispersi e disperati come le capre spaventate a morte da un branco di lupi sapranno ricomporsi. Mashallah! se Dio vorrà!

Il Sinedrio

Sono seduti in circolo, vestiti di nero. Hanno tutti la barba. Vengono da luoghi differenti e da tempi lontani. Sono ciò che credono di essere, gli eletti del Popoli che confidavano nell’aria pulita dell’Islam e ora obbediscono nella paura, ma ancora sperano. O forse aspettano, come hanno sempre fatto i popoli in tutta la Terra. E molti hanno atteso anche qui, nel centro pulsante dell’Arabia Felix: Iran, Iraq, Siria, Afghanistan, Yemen. La terra figlia del Califfo, madre dell’umanità del Vecchio Mondo.

Io sono qui perché vengo da Gaza e so parlare, ma quel che serve per essere parte di questo Sinedrio è una parola sola: vengo dal Martirio. Tutti lo abbiamo attraversato e solo per questo siamo qui.

Viene fatto entrare un giovane prima di me, accompagnato e un poco spinto avanti dalle Guardie della Rivoluzione. Vorrebbe parlare ma non può. Non serve. Già è stato detto tutto quello che bastava. E basta poco, perché comunque non potranno mai fermarsi. Non lo può nessuno; non ci è dato. Il verdetto viene pronunciato, ed è sempre lo stesso. Il giovane capisce e sbianca; ma non può parlare, viene condotto via. Segue una giovane che non parlerebbe mai comunque, e non dirà più niente. Nessuno parla più, neanche sotto la frusta o i colpi delle pietre, neanche quando pende dai ganci di una gru. Parlavano di più sotto le bombe, è vero. Però morivano anche molto di più e senza saper perché. Ora lo sanno.

Per il momento altro non è possibile: solo la morte salva. Lo abbiamo imparato bene a Teheran, a Baghdad, ad Aleppo, a Kabul, a Sanaa. Lo impareremo meglio qui ad Amman.

E un giorno non lontano saprà bene di noi Gerusalemme, che da tremila anni attende.

Verrà il giorno.

Il Disvelamento

Sono rimasti in cinque; gli altri fuori.

Io sono davanti a loro, in piedi. Siedono sopra un tappeto vasto e spesso, a gambe incrociate.

Il gran Mullah Omar ora mi parla: – Tu chi sei? -mi chiede.

– Bismillah Ir Rahman Ir Rahim ! In nome di Dio il Clemente il Misericordioso! Sono colui che ti ha portato un Popolo, il suo popolo, che è stato offerto in sacrificio alla volontà di Dio!

– E quanti sono? – dice mentre mi guarda torvo.

– Sono numerosi come le cavallette, gran Maestro. Possono rendere il Califfo ancora più grande di quel che sia mai stato. Allāhu akbar! Dio è grande!

– Bada. Conosco le parole della Sūra: «Quando il tuo Signore disse agli angeli “in verità io sto per inviare in terra un mio khalīfa”, gli angeli risposero “manderai qualcuno che porterà la corruzione e spargerà il sangue, mentre noi celebriamo le tue lodi e ti santifichiamo?”, Dio rispose “io in verità so ciò che voi non sapete“.» Ma io voglio sapere perché tu lo hai fatto.

– Perché tu ora li protegga, gran Maestro. Ogni gente, per diventare un Popolo, deve pagare il suo debito verso il Misericordioso, Allāh Ar-Rahman.

 Il Mullah insiste: – I debiti verso Dio possono essere pagati solo con il sangue. Tu lo hai fatto?

– Il mio debito lo pagherò. Loro hanno già versato il loro sangue per ottenere il dono di una faccia da Colui che dà la forma, Allāh Al-Musawwir.

– Questo lo so. È di te che non capisco. – Il Mullah Omar ora è sospettoso. – O li hai soltanto accompagnati qui senza prendere possesso dei loro cuori?

– Non so davvero come dirlo, non c’è un modo: c’è soltanto una verità irreale, ma è così. Io stesso ho versato il loro sangue. Debbono interamente a me il loro Martirio. Li ho uccisi e fatti uccidere. Donne, bambini, vecchi, figlie e figli, padri, madri, spose e mariti, infanti. A migliaia sono stati fatti a pezzi, tanto che nessuno li ha trovati più. Li hanno mangiati i cani. Il sole e la polvere li hanno torturati a morte e poi dissolti.

Omar il gran Mullah accende gli occhi rossi: – Ma perché proprio ora e proprio tu?

– Perché io sono il Diavolo, il loro avversario. E sono il loro salvatore: solo il Martirio che ho loro inflitto li ha resi degni dell’Altissimo. Ora possono essere un popolo di Dio e una nazione. Prima erano soltanto schiavi. Cercano una terra.

– Una terra? No, nemmeno qui c’è terra per i Filistei sconfitti dalla Storia. Siamo in terra di Giordania, tu lo sai – replica Omar.

– Tu lo puoi fare, gran Maestro. Siamo già milioni qui da tanto tempo. E molti altri possono venire ancora dal cuore di Giordania che sta di là dal fiume e altrettanti dal Paese dei cedri del Signore. Saremo tutti insieme finalmente, forti ancora; e Loro saranno la metà di noi come erano un tempo. Ci riprenderemo tutto allora, con il vostro aiuto. Mashallah! se Dio vorrà!

– Chi sei davvero? – mi chiede con il volto terribilmente serio.

– Io non lo so – rispondo, mentre chino il capo. – Forse non sono ancora pronto per essere quello che conduce.

Omar, il gran Mullah di Afghanistan, mi fissa, e io davvero non ho mai ricevuto uno sguardo di una tal fredda potenza. Poi mi dice: “Ora ritirati”.

E si rivolge verso gli altri quattro suoi compagni neri come se io non fossi già più dentro la stanza.

Esco indietreggiando. Non so pensare a nulla.

Il trascorrere del tempo mi accompagna in un dormiveglia nell’irreale vuoto della mia memoria. Non è affanno, non è quiete. È Storia che matura e che si compie.

Attendo.

Si fa il tempo.

Quando riapre l’enorme porta della sala dove il Gran Consiglio si riunisce, due armigeri mi fanno scivolare al posto dove ero prima. I cinque Capi sono riuniti in circolo. Tutti hanno il busto piegato verso terra con le mani aperte sull’enorme tappeto che li accoglie. Il gran Mullah è di faccia alla porta altissima dalla quale sono entrato.

Rialza il volto e socchiude appena gli occhi. Dice:

– Tutta la gente che è venuta qui con te può rimanere; è parte di noi. Tu non lo sei. Questo non è il tuo popolo.

– Che cosa devo fare, gran Maestro?

– Devi pagare il debito tuo come hanno pagato loro. Torna a Gaza.

Il Termine

Ah quanto è lontana Gaza col suo mare.

Vento di Samaria è quel che arriva qui ad accendere la polvere bollente di Giudea. Alture erte e arse fiaccano i miei sandali, e la mia gola non ritrova più parole. Morta, finalmente, proprio come il mare che circondano, morto anch’esso ormai da tanti anni e spento nel rigore cadaverico di una terra condannata.

Non è la superficie semplice di un lago, né quella di un piccolo mare salato da aggirare. Sono acque solide oramai, sulle quali tutti dovranno imparare a camminare. I miracoli sono impresa ordinaria in Palestina; vuota di uomini sarebbe questa terra maledetta se non avessimo appreso l’arte del prodigio di sopravvivere ogni giorno e rivedere un’alba in più.

Vago in queste lande da sette giorni e sette notti. Ho con me una corda e cerco un albero. Non c’è. Giuda Iscariota ebbe sorte migliore.

Ed è giusto così perché il peccato che ho commesso io è ancora più grande contro questo popolo che non può essere mio e contro quello che non lo è più o forse non lo è stato mai.

Due popoli, due tradimenti: tutti hanno visto e non lo sa nessuno.

Tranne me. E ora il tribunale che mi ha condannato. Ma Bibi non affronterà un altro Sinedrio. Hanno capito già. Il mio tradimento forse ha perduto Israel per sempre, condannandola a essere definitivamente estranea in patria.

Io non lo so. Ma chi lo sa?

Fino all’ultimo respiro e oltre, fino allo scioglimento dell’ultima molecola del mio involucro terreno vorrò pensare che l’odio è passeggero, come lo è la guerra in fronte della pace 

E penso al bene che è al fondo di ogni cosa.

Bismillah Ir Rahman Ir Rahim! In nome di Dio il Clemente il Misericordioso!

Ora mi fermo qui nel nulla cui appartengo. Sarò polvere che il vento alza e disperde. Sarò pietra che il sole dissolve lentamente. Fino a scomparire. Ma la mia anima nera sarà il ventre che partorirà il nuovo Messia che attende il suo momento in terra di Giordania.

Io per me posso pronunziare solo l’ultima parola:

Rahma, Rahamin, Misericordia.”

Il Natale

È nato un bimbo in terra di Giordania.

La Stella cometa che, brillante di ferocia e fuoco, solca la notte a queste latitudini, ha già individuato la capanna. Ma dieci stelle, non meno feroci, si sono alzate da terra per fermarla.

Nessuno toccherà il Messia, stavolta. Non ci sono buoi né asini da queste parti. Non ci sono più nemmeno capre. C’è solo un bimbo e vive. Ed è già molto, quasi tutto.

Ce la farà. Ce la faremo, noi.

I Re sono arrivati già a cercarlo per rendergli l’omaggio. Non l’hanno trovato ancora, per fortuna, disperso nel mezzo delle moltitudini che qui stanno confluendo.

Questo è un Messia diverso. È un Filisteo.

Forse in qualche ignota parte del mondo qualcuno sta già intagliando un’altra croce: ma saremo davvero tutti così pazzi da appenderci di nuovo un Dio bambino?


Stefano Pantezzi, nato a Rovereto nel 1956 e cresciuto a Trento, vive a Pergine Valsugana. Laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna, è avvocato da una vita. Ha pubblicato la raccolta di poesie “Come una nave d’acqua (YCP, 2018), i romanzi “Siamo inciampati nel vento” (Edizioni del Faro, 2020) e “Giovanni, l’Alighieri e il Caffè sulla Luna” (EdF, 2021), e la raccolta di racconti “Di stelle in cielo, in terra e in mare” (EdF, 2024). Collabora con il Magazine TM TrentinoMese (www.tm-online.it) e fa parte del collettivo “Scripta-appassionati di Scrittura” di Trento.