by Leslie Leonelli, exclusive for The diagonales
Tredici persone per proteggerci dal rischio di sviluppare, da anziani, una forma di demenza. Tredici persone per evitare di trasformarci in vecchi e vecchie rimbambiti/e.
Tredici amici, o parenti- non importa, e non importa che siano di più, ma il 13 è un minimo e porta bene.
Quel che importa davvero è che i rapporti umani tra la persona anziana e questa dozzina di persone siano buoni, costruttivi, affettuosi.
Perché 13 e non 15 o 11? Forse è il numero approssimativo di una famiglia allargata, come quelle di una volta: papà, mamma, una zia zitella, un nonno residuo e un bel pò di figli.
In particolare, è sufficiente avere almeno tre rapporti stretti da coltivare con incontri faccia a faccia, scambio di visite, dialogo diretto. Aggiungiamo poi altre dieci persone con un contatto intensi: amici, vicini, affini per gusti e cultura, volontari, o affini per religione o impegno sociale.
Può essere anche solo per internet o, meglio ancora, durante la attraverso attività ricreative socializzanti. Questi contatti sono la nostra rete di protezione. Questo è un modo possibile per abbassare – anche se non eliminare il pericolo di una degenerazione cerebrale.
Secondo i risultati di alcune ricerche pubblicate dal settimanale scientifico americano “The Scientist”, lo studio è stato realizzato dal dottor Shari Bassuk un giovane ricercatore della Harvard Medical School, su un campione di 2800 anziani “non istituzionalizzati”, cioè non inseriti in case di cura, e osservati per dodici anni. Soprattutto nei grandi centri urbani, la nostra, in nome della libertà personale, è diventata una società tendenzialmente solitaria che sembra fatta apposta per evitare i contatti. Ma solo il contatto, i riconoscimenti, gli stimoli che ci danno gli scambi ci assicurano salute e intelligenza. Basandosi su ricerche e prove cliniche, Eric Berne ha definito la “Carezza” come un qualsiasi atto che implichi il riconoscimento della presenza di un’altra persona, e ne ha fatto la base dell’Analisi Transazionale.
Il termine colloquiale di “carezza” è la traduzione approssimativa, ma inevitabile, dall’inglese “stroke”, colpetto, o pat pat agli animali. Se il contatto fisico è essenziale alla formazione psicologica e alla sopravvivenza dell’individuo neonato, lo scambio di carezze rimane poi una delle nostre attività più importanti. Il termine “carezza” è stato poi esteso anche a tutti i vari tipi di riconoscimento che possiamo ricevere o dare, che sono fondamentali per la nostra vita. Perché se è anche possibile fare a meno del contatto fisico, pochi di noi possono vivere senza un “buon giorno” da parte di altri. La linea di demarcazione tra carezze fisiche e verbali a questo punto si fa molto labile: tutti abbiamo bisogno almeno di un “ciao” per sostenere la nostra sopravvivenza psichica. Speleologi o astronauti esiliati volontari sotto terra o nello spazio, ne tornano sempre segnati.
La solitudine é nuovo modo di vivere, ma l’aumento dei singol costituisce una vera e propria malattia dolorosa ed endemica, tanto che nel Regno Unito è sorto un “Ministero della solitudine”.
Il segno di riconoscimento, che mi piace continuare a chiamare “carezza”, è la prova tangibile, la materializzazione di un rapporto tra l’io e il non-io, tra il sé e il non-sé. Attraverso la carezza ci conosciamo, con le nostre qualità e modi di esistere.
Attraverso le carezze, dunque, acquistiamo un’identità. Se poi le carezze ricevute nel passato ed ora sono positive, ne viene coltivata l’autostima, mentre con i riconoscimenti/carezze negative invece si cresce nella disistima di sé.
Sia le carezze buone, che quelle cattive, sono comunque contrarie all’isolamento, all’indifferenza. Perciò l’analisi della “fame di carezze” è paragonabile ad una ricerca teorica sul valore calorico degli alimenti nel campo dietologico. In che cosa consiste una dieta completa e cosa rende una dannosa?
Un bacio o uno schiaffo, un complimento o un rimprovero, una dichiarazione d’amore o una dichiarazione di odio, sono carezze a prima vista contrastanti; tuttavia, anche se date o ricevute in situazioni e stati d’animo diversi, tutte si oppongono all’indifferenza, al silenzio, all’ignoranza dell’altro. Sono tutte segni di riconoscimento. Sono tutte stimoli e, come abbiamo visto, la fame di stimoli ha la stessa importanza con la sopravvivenza dell’organismo, della fame di cibo.
Mai come durante il Covit-19 abbiamo sentito usare il termine negletto di “carezze” che le persone non hanno potuto scambiarsi se non via internet. Soprattutto non hanno potuto dare carezze di conforto ai malati per via dell’alta contagiosità: è morto senza che potessi dargli una carezza. E’ così che il termine “carezza” usato in modo tanto affettivo e struggente si è finalmente sdoganato dall’amore per i bambini o per gli scambi degli amanti, evidenziando i nostri bisogni d’affetto e di cura, a tutte le età.
Tenere aperti i canali di comunicazione
Tornando alle 13 persone che ci separano dalla imbecillità risulta evidente che una poltrona e un televisore sono l’ideale per isolarsi, e neppure il più stimolante dei programmi o il personaggio più interessante della TV ci proteggerà mai contro il rincoglionimento. A cominciare dai bambini, rinchiusi a giocare con i loro tablet.
L’isolamento, l’incapacità di dialogare, di relazionarci, di scambiare segni di riconoscimento o “carezze”, soprattutto quelle positive, è la situazione più perniciosa della vita, soprattutto poi con l’età che passa. Nei gruppi di sviluppo personale scopriamo di non essere i soli o le sole ad avere paura del tempo che passa, delle ferite amorose, di essere criticati e criticate, di non essere adeguati, ecc…
Tutti poi si tranquillizzano e ridimensionano i propri timori, che pensavano esclusivi.
Tenere aperti i canali di comunicazione vuol dire ascoltare, parlare, carezzarci e connetterci, e con questo sentirci vivi, in compagnia e trovare anche soluzioni nuove ai problemi che si presentano.
E’ un tema che mi tocca talmente che ho fatto delle riunioni del Caffè Freud una palestra di convivenza.
Apprendere una buona comunicazione, apprendere a dare, ricevere e scambiare carezze, a segnare i propri confini e riconoscere quelli altrui, è apprendere a convivere, a stare nel mondo nel modo migliore possibile, il più a lungo e svegli possibile.
Immagine in evidenza: Foto di Juli Maya
Elisabetta Leslie Leonelli, è nata e cresciuta a Pesaro, laureata a Trento in Sociologia negli anni ruggenti, si è poi dedicata alla Psicoterapia, l’Amorologia, e alle tecniche di Convivenza. Ha pubblicato saggi con Rizzoli, Mondadori, Garzanti e altri, tradotti quasi tutti in altre lingue, tra cui i famosi “Aldilà delle labbra (1985) e “Coccole e carezze” (2000). Ha fin ora tenuto corsi in varie Università, Valencia, Madrid, Roma, Modena e Arcavacata. Collaborazioni con Groupe de Recherche et d’Ètudes Créatives, Parigi e Createca in Italia con Hubert Jaoui.
Dal 1998 conduce incontri col Caffè Freud, da lei fondato che ha come obiettivo la “Convivenza” micro e macro. Dal 2007 al 2018 ha presieduto il Caffè Freud come club dotato di una propria casa in Roma dove vive. Tiene un blog su caffefreud.it.
Elisabetta Leslie Leonelli, born and raised in Pesaro, graduated in Sociology in Trento in the roaring years, then dedicated herself to Psychotherapy, Amorology, and Living Together techniques. She has published essays with Rizzoli, Mondadori, Garzanti and others, almost all translated into other languages, including the famous “Aldilà delle labbra (1985) and “Coccole e carezze” (2000).
She has so far held courses at various universities, Valencia, Madrid, Rome, Modena and Arcavacata. Collaborations with Groupe de Recherche et d’Études Créatives, Paris and Createca in Italy with Hubert Jaoui. Since 1998 she has been conducting meetings with the Caffè Freud, which she founded with the aim of “Living together” micro and macro. From 2007 to 2018 he chaired the Caffè Freud as a club with his own house in Rome where he lives. Keep a blog on caffefreud.it.