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by Thierry Vissol, European, Director of Librexpression
Parlare di libertà di espressione non è possibile senza affrontare il tema della satira, scritta, filmata o disegnata, particolarmente delle vignette satiriche, della caricatura, non tanto perché la strage di Charlie Hebdo a Parigi nel gennaio 2015 ne fu un esito di estrema violenza, ma perché da quando la satira esiste – cioè da Aristofane in poi – ha provocato reazioni estreme. Perché la satira è una forma estrema della libertà di espressione e quindi diventa esemplare.
La satira, nella sua essenza, nonostante i suoi eventuali eccessi e derive è sempre stata un elemento fondamentale della critica contro i poteri, siano essi economici, politici o religiosi. La sua logica intrinseca è quella di colpire più forte possibile, di non risparmiare nessuno né avere alcuna buona creanza, e la sua violenza grafica e formale è spesso proporzionale a quella degli abusi, delle oppressioni, delle disuguaglianze, dei poteri che attacca. La satira in generale, il disegno satirico in particolare, incarna una posizione politica e morale. Ildisegno satirico è, per essenza, il contro-potere per eccellenza.
La satira, dunque, fa la mosca cocchiera, arrogandosi il merito di rivelare la «natura» delle cose, anche se può essere lo strumento delle dittature, del razzismo, degli estremismi di tutti i tipi, così come la letteratura, il cinema o i media in generale. La conoscenza, l’esortazione di Kant ad avere il coraggio di servirsi del proprio intelletto, la «freie Willkür», il libero arbitrio, il contrario dell’arbitrario, sono insufficienti se i loro risultati non sono diffusi, se questa libertà di pensiero non si trasforma in libertà di espressione ricevendo una concreta possibilità di essere pubblicamente esposta. Il disegno satirico, per la sua carica caricaturale – ossia per quella esagerazione che ne è la ragion d’essere -, per la rapidità della sua comprensione – che può essere universale perché non ha bisogno di una lingua, il disegno è sufficiente -, per l’umorismo che lo sottintende e provoca una risata pur provocando la riflessione, diventa uno strumento fondamentale nell’esercizio dell’intelletto kantiano, tanto per il disegnatore che per il lettore o lo spettatore, perché si propongono di farlo risalire alla sua conoscenza del mondo e ai suoi presupposti.
Ciò detto, perché la satira possa davvero svolgere un ruolo, bisogna che sia acerba e che “vada al punto”, che si fondi su un’analisi della natura delle cose tali quali le vede il suo autore che vi esercita il proprio intelletto e…non dimentica di far ridere. I meccanismi della risata così come li hanno analizzati Aristotele o Henri Bergson e altri filosofi sono molteplici. Quelli innescati dalla satira non possono tuttavia fondarsi sulla buona creanza, devono per definizione fondarsi sulla trasgressione delle buone maniere. Ciò non significa necessariamente che la satira debba essere sistematicamente volgare, oscena o escatologica, ma, tenuto conto della sua logica, non le si può affatto rimproverare di esserlo e colui che lo sarà, purché ne abbia il talento, si troverà in buona compagnia, quella di Dante, Rabelais, Boccaccio, Lucas Cranach o Hans Holbein, Daumier, George Grosz…per citare solo alcuni tra i più grandi spiriti della nostra cultura.
La vera satira deve quindi essere feroce, irreverente, provocatoria, a volte eccessiva e volgare, non deve risparmiare nulla e nessuno. Tuttavia, questa ferocia non deve essere gratuita. Deve rimanere una vera e propria lotta politica, senza il tabù del “politically correct” perché sarebbe contrario al suo scopo e alla sua “ragion d’essere”. Perché molto spesso questo tabù del politicamente corretto, del rispetto o della tolleranza (senza che il contenuto di tali concetti sia ben definito, né universalmente compreso nello stesso modo) non è nient’altro che una potenziale scusa per censurare le critiche. Un buon pretesto per tutti i tipi di poteri, lobby e gruppi di pressione di imporre la censura, senza dover passare per i tribunali, privatizzando così la censura, tramite l’autocensura praticata dagli editori, dalle reti televisive, dagli operatori dei social network, dal cinema (non è politically correct mostrare un attore contento di fumare, ad esempio), e dagli artisti, scrittori, giornalisti stessi- come lo dimostrò nell’aprile 2019, la decisione del New York Times di non pubblicare più vignette satiriche per “non offendere alcuni dei suoi lettori”. In generale – ma purtroppo non sempre – le provocazioni che si trovano in tutte le forme di espressione critica o satirica non cercano di ferire l’altro, ma di aprire gli occhi, di far cadere i paraocchi, di suscitare riflessione. Il fumettista e premio Pulitzer per il suo libro sui campi di concentramento Mauss, Art Spiegelman, precisa: Per definizione la caricatura è un’immagine ‘caricata’; il suo spirito deriva dalla concisione visuale che le permette di esprimere un punto di vista in qualche tratto abile. La riduzione delle idee a icone memorizzabili permette al disegno di insinuarsi nel più profondo del cervello… Il vocabolario della satira grafica si limita per l’essenziale a un pugno di simboli e “cliché” visuali riconoscibili. Il suo linguaggio riguarda i principi, adesso discreditati di questa pseudoscienza che era la fisiognomonica per inquadrare una personalità tramite pochi attributi fisici ed espressioni facciali. Ci vuole talento per utilizzare questi cliché in modo da allargare o sovvertire questo lessico impoverito… Le caricature procurano il più grande piacere estetico quando riescono a dire il fatto loro al potere, non quando servono ad affliggere gli afflitti [1].
L’irriverenza (anche se libertaria, volgare, oscena, carnevalesca) può essere considerata come il motore dello spirito critico, fondamento del progresso del sapere e del vivere insieme. Certo, lo spirito critico può anche essere giudicato come pericoloso da tanti perché, come già notava Platone, è più comodo e sicuro rimanere nella propria caverna, che affrontare la realtà e la luce del sole. Questa riflessione sul tema della libertà di espressione e dell’”offesa” che potrebbe risultare di una satira ferocia, andrebbe forse inserita nel quadro definito da Tacito: Le offese commesse verso gli dei sono affare degli dei, o da George Orwell: Parlare di libertà non ha senso che nella misura in cui sia la libertà di dire agli altri quello che non hanno voglia di sentire. In democrazia, a priori, ognuno dovrebbe imparare a passare oltre le proprie ferite narcisistiche e accettare che la propria credenza (religiosa, politica, filosofica, ecc.) possa essere contestata e oggetto di dibattito.
Contrariamente a molti altri tipi d’informazione, la satira non ricerca il protagonismo. Va al di là dalla società del “selfie” e dello spettacolo, un’evoluzione sociologica amplificata dall’uso e abuso dei social networks e dal “surfing veloce” sulle onde inarrestabili d’informazioni spesso inverificabili. Perché appunto, la satira, quando fatta da professionisti che rispettano il loro pubblico, mette – con ironia – il dito nella piaga dei malfunzionamenti politici, sociali, economici; nella piaga sanguinosa dell’abbandono dei nostri valori democratici ed europei, come la solidarietà. Perché la satira è un colpo di frusta che dovrebbe contribuire ad aprire dibattito, contestazione e critica costruttiva, cioè nel senso positivo e cartesiano del termine. Perché, la satira ben fatta pone delle domande cruciali, con un umorismo (spesso nero) che per natura deve essere graffiante, caricaturale. Ed é proprio il ruolo della satira: “qui bene amat, bene castigat” dicevano già i latini (chi ama tanto, punisce tanto). Delle domande quindi alle quali politici, funzionari, giornalisti e specialisti dovrebbero essere desiderosi di rispondere. Delle domande che dovrebbero nutrire un sano dibattito politico e democratico. Delle domande per le quali i cittadini hanno il diritto di ricevere risposte vere e non anestetizzate.
[1] Intervista in Books, marzo 2015, p. 24
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