Nata da genitori francesi in Zimbabwe, Claude Jammet è cresciuta in Kenya, India e Giappone e ha soggiornato in Francia per lunghi periodi prima di stabilirsi in Sud Africa dove ha iniziato la sua carriera come illustratrice in un’agenzia pubblicitaria e in seguito, dopo la prima mostra personale, come pittrice professionista. L’amore l’ha spinta, ormai più di vent’anni fa, a trasferirsi in Italia dove tutt’ora vive e lavora, in un paesino della Liguria.
Si descrive come autodidatta, anche se ha deciso di fare la pittrice a soli quattro anni – e da allora non ha mai smesso di disegnare e dipingere – con il caloroso sostegno dei suoi genitori, guardando con passione tutti i libri che poteva trovare sulla pittura e sui grandi maestri.
Dipingere per lei non è solo un’esigenza vitale, ma anche una maniera per comunicare la sua esperienza dei tanti mondi e culture diverse che ha vissuto e che hanno forgiato la sua personalità. Un modo per comunicare la sua visione dell’evoluzione del mondo, dell’impatto dell’uomo sulla natura e sull’umanità stessa. Il suo lavoro, pur guardando alla perfezione della natura e dell’uomo, spesso diventa un grido contro il carattere distruttivo del genere umano e il modo sbagliato in cui questo prova a dominare la natura per i propri interessi. Pertanto, molti dei suoi dipinti, anche se non tutti, sono una sorta di memoria delle specie a rischio di estinzione o illustrano simbolicamente il vuoto creato dalla loro scomparsa al punto da intitolare una delle sue mostre “Antropocene”. Oltre l’evidente angoscia che trasmettono mostrandoci la nostra devastazione di Madre Natura, questi dipinti non mancano mai di una punta di squisito umorismo che introduce dettagli inaspettati della moderna società dei consumi.
Pur essendo pittrice realista, a volte al limite dell’iperrealismo, spesso i dettagli o gli sfondi sono trattati in modo espressionista oppure astratto. Jammet ama giocare con le reminiscenze degli antichi maestri, dimostrando la sua profonda conoscenza della storia dell’arte, che tratta in modo molto naturale, con eleganza, “en passant”. Allo stesso modo è affascinata dai rituali, in particolare da quelli religiosi, come si vede nei lavori della mostra “Cultus”, affrontandoli non con ironia, ma ancora una volta con un certo umorismo e tenerezza, come se i costumi e le credenze umane del passato si traducessero in una forma di nostalgia per le culture che stanno scomparendo.
Nel corso di una carriera lunga oltre quattro decenni, ha tenuto numerose mostre personali e collettive in Sudafrica, Europa e Giappone. È rappresentata da diverse gallerie in Sudafrica e dalla Everard Read Gallery di Londra, dove attualmente espone in una collettiva dal titolo “Against Interpretation” e nel frattempo prepara una personale che si terrà nel 2021. Ha ricevuto diversi riconoscimenti internazionali, ultimo, nel 2019, la medaglia d’oro del Premio Turio-Copello.
Le sue opere sono presenti in numerose collezioni private e aziendali in Sud Africa e in tutta Europa.
Claude Jammet Intervista di Thierry Vissol
Thierry Vissol: Afferma di essere un artista autodidatta, anche se dipinge dall’età di quattro anni e ha studiato per tutta la vita la storia dell’arte e le tecniche degli antichi maestri analizzando il contenuto del loro lavoro. Non è questo che si insegna di solito nelle scuole d’arte? E perché si è rifiutata di frequentarne una?
Claude Jammet: Quando, a quattro anni, ho dichiarato che sarei diventata pittrice non sapevo nemmeno leggere, figuriamoci studiare la storia dell’arte o la tecnica. L’impatto che l’arte ha avuto su di me fin da piccola è stato quello di darmi una spinta.
A scuola ho preso l’arte come materia, ma non avevo buoni voti perché non ho mai seguito le istruzioni. Così, quando ho terminato gli studi e i miei genitori hanno proposto di offrirmi un’educazione artistica, vista la mia esperienza scolastica ho rifiutato. Ma ho continuato a imparare guardando tantissima arte, leggendo, analizzando e naturalmente esercitandomi. Suppongo di essere arrivata allo stesso risultato che avrei ottenuto frequentando un’accademia, ma da sola. Non credo si possa pretendere di insegnare a qualcuno a diventare artista. Con il tempo, è la storia a deciderlo.
Thierry Vissol: Ha tenuto la sua prima mostra personale in giovane età, il che l’ha convinta a lasciare il suo lavoro e a dedicare la sua vita professionale alla pittura. Pensa che dipingere sia una sorta di destino inscritto nei geni dei pittori? O piuttosto un approccio psicologico per realizzare sé stessi e per proteggersi dalle aggressioni del mondo reale?
Claude Jammet: Il lavoro in questione era quello di illustratrice per un’agenzia pubblicitaria. Lasciarlo è stato facile perché i due anni che ho passato lì sono stati a dir poco frustranti. Ero solo una macchina che assecondava ogni capriccio dei clienti. Costretta a usare un proiettore e riferimenti fotografici per “risparmiare tempo e fare soldi”. Almeno ho imparato quello che non volevo. Lasciare il lavoro è stato un atto di fede, non sapevo come sarei sopravvissuta o “se” sarei sopravvissuta. Immagino che l’idea che avevo in testa a quattro anni alla fine abbia dato i suoi frutti!
Thierry Vissol: Ha vissuto in molti paesi dalla natura selvaggia, come il Kenya o il Sudafrica, e di quest’ultimo sembra ancora affascinata dal deserto e dall’impressionante immensità del Karoo. È questa vicinanza, questa quasi comunione con la natura che ha risvegliato il suo interesse per le specie in via d’estinzione, come il rinoceronte nero o il coniglio di fiume, spingendola a rappresentarle in modo così “umano”?
Claude Jammet: Nel mio caso, è successo il contrario. I primi soggetti che ho dipinto quando avevo quattro anni sono gli animali che vedevo in Kenya, dove vivevo. In seguito ho scelto di vivere in luoghi selvaggi e remoti dove potevo sentirmi in armonia con la natura e dove quelle creature non erano in pericolo.
Spero di ritrarre questi meravigliosi esseri con “umanità”, ma senza cercare di umanizzarli.
Thierry Vissol: C’è una sorta di attivismo nei suoi dipinti contro le conseguenze devastanti delle attività umane e delle società dei consumi (Antropocene). Lei introduce quindi ammiccamenti (clins d’oeil), come un codice a barre su una zebra o graffiti sulla pelle di un rinoceronte. Pensa che un artista abbia, con il proprio lavoro, un ruolo da svolgere nei dibattiti politici?
Claude Jammet: Se ho un ruolo da svolgere, dubito che sia politico. Forse etico? Se riesco a sensibilizzare anche un solo spettatore sulla situazione critica delle specie a rischio, avrò fatto il mio lavoro.
Thierry Vissol: In molti dipinti lei rappresenta vecchie cose oppure teschi, nidi vuoti, esprimendo allo stesso tempo un senso di atemporalità e di fragilità della vita. È un’influenza proveniente dalla tradizione della “vanitas”?
Claude Jammet: Penso che il motivo sia che la natura transitoria di ogni cosa mi rattrista. Il linguaggio della natura morta nelle “vanitas” della tradizione è più circoscritto.
Thierry Vissol: Rimanendo in tema di influenze, lei sembra essere come una spugna che assorbe e rielabora molteplici influenze. Tuttavia, nelle sue nature morte ho avvertito una sensazione di pienezza simile a quella che si prova quando si riflette su quelle di Giorgio Morandi. Come nel lavoro di questo maestro, i suoi oggetti, le sue nature morte e i suoi ritratti hanno un complesso sfondo neutro. Perché?
Claude Jammet: Per dare centralità al soggetto/oggetto reale, escludendo tutto ciò che potrebbe distrarre. Ciò non significa che in quello spazio non possano accadere cose interessanti, come graffi, tracce o sfumature di colore.
Thierry Vissol: Pur padroneggiando perfettamente la prospettiva, i suoi dipinti acquistano un forte dinamismo grazie alla sua capacità di elaborare i dettagli, una tecnica utilizzata da Jean van Eyck e dalla scuola di pittura fiamminga della fine del medioevo, prima che decidessero di adottare la perspettiva all’italiana del Rinascimento. Perché?
Claude Jammet: L’illusione prospettica dello spazio intorno al soggetto non ha bisogno di architetture o paesaggi per definirlo. Piccole cose, come pietre o ramoscelli e le loro ombre, assolvono il compito senza distrarre dal soggetto.
Thierry Vissol: Un’altra delle sue fascinazioni, molto legata alla sua visione della storia, personale o generale, e forse all’attuale apparente regressione dell’umanità, è per i rituali, religiosi e non solo. Perché?
Claude Jammet: Il rituale eleva il mondano a un livello sacro. Pensate alla cerimonia del tè: tutte le cose che valga la pena fare richiedono tempo, ciò che sembra mancarci sempre di più. Oggi mettiamo una bustina di tè in una tazza e beviamo mentre parliamo di affari al telefono.
Thierry Vissol: Lei è decisamente una pittrice realista, a volte anche iperrealista. Un altro pittore che ho intervistato, decisamente astrattista, affermava che “Anche un grande realismo – pur impressionante nella sua capacità di dimostrare la propria abilità acquisita – racconta tutto allo spettatore in pochi istanti, e si smette di guardare”. Ma lei ha partecipato a una mostra intitolata “Contro l’interpretazione”. Concorda con Susan Sontag sul fatto che la volontà di interpretare un’opera d’arte, in particolare se realista, sminuisce o riduce il potere dell’arte e che nella contemplazione di un’opera d’arte bisogna prendersi del tempo e recuperare i sensi: ascoltare di più, sentire di più e vedere di più?
Claude Jammet:
Sono una pittrice realista, ma respingo il titolo di iperrealista. Può sembrare che io dipinga ogni capello o ogni filo d’erba, quando in realtà è solo un piccolo dettaglio che permette all’occhio di completare il resto. Per quanto riguarda l’idea che il grande realismo annoi in pochi istanti lo spettatore, devo dire che potrei guardare “Las Meninas” di Velasquez ogni giorno per il resto della mia vita e riscoprirlo all’infinito.
Non potrei essere più d’accordo con Susan Sontag, perché interpretare significa anche “impacchettare” o etichettare. Un’abitudine di cui non possiamo apparentemente fare a meno.
Thierry Vissol: Cosa pensa della pittura astratta?
Claude Jammet: Molti lavori scadenti sono stati sdoganati con l’etichetta di Arte astratta. Tutta l’arte è astratta: se riconosciamo lo stile di un pittore è perché il pittore ha astratto la realtà. Chaim Soutine non è un pittore astratto, né realista, è semplicemente fantastico! E, diciamocelo, non tutti sono un Rothko o un Auerbach!
Thierry Vissol: A volte dipinge nudi, soprattutto donne? Cosa rappresentano per lei i nudi?
Claude Jammet: In realtà ho dipinto più nudi maschili. Gli uomini hanno meno coscienza dei loro piccoli difetti, sia vestiti che nudi. Nella ritrattistica il corpo è un racconto come lo è un volto, e le piccole imperfezioni esprimono personalità. Anni fa dipinsi un amico che ha gravi ustioni su metà del corpo. Quando gli chiesi di posare per me volle sapere perché avessi scelto di dipingere le sue cicatrici (l’incidente era avvenuto quando aveva solo due anni). Gli risposi che “le cicatrici sono il luogo dove l’anima ha cercato di lasciare il corpo e non ci è riuscita. Il luogo dove è stata rinchiusa“. Mi sembrò molto contento della spiegazione.
Thierry Vissol: In un’intervista ha detto che l’arte per lei è l’unica religione. Cosa intende e cosa è o non è arte per lei?
Claude Jammet: Trovarsi al cospetto della vera arte (che si tratti di musica, letteratura, danza, cinema…) è un’esperienza mistica. Anni fa ho avuto la fortuna di vedere la grande retrospettiva di Francis Bacon al Beaubourg di Parigi. Ho fatto tre volte il giro della mostra nel tentativo di fissare quella che sapevo essere un’esperienza che mi avrebbe cambiato la vita. Solo la vera arte ci riesce, il resto è posa.