by Rosetta Alberto*, Italy, exclusive for The diagonales
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Sono giorni che penso a questa pandemia battezzata “COVID 19” cercando di trovare conferme a tante ipotesi che da tempo mi impegnano mentalmente. Quale può essere la sua scaturigine e, soprattutto, perché la sua virulenza è localizzata in alcuni punti precisi del Paese mentre altre zone sembrano godere di una sorta di immunità.? E ancora: come mai alcune fasce di popolazione apparentemente più vulnerabili – si pensi agli homeless –non muoiono di Coronavirus?
A dare un senso a questi pensieri ci ha pensato la visione di una mappa pubblicata in rete, “La mappa del coronavirus in Italia”, che illustra i dati dei contagi italiani aggregati per provincia e i morti per regione (Fonte: Ministero della Salute – Aggiornamento ore 18.00 del 5 aprile 2020 – e Johns Hopkins Center for System Science and Engineering). https://lab24.ilsole24ore.com/coronavirus/#box_14
La mappa mostra chiaramente come le regioni più colpite si situino al centro nord (Lombardia- Emilia Romagna – Piemonte – Veneto- Toscana) mentre il sud Italia viene appena sfiorato da quel trend drammatico.
Fortuna o forza del territorio?
Da qui la prima domanda: si tratta solo di fortuna o piuttosto vale la pena di indagare sui differenti lifestyle, sulla migliore risposta immunitaria e, soprattutto, sulla forza di quella “arretratezza” delle aree rurali che può rappresentare il vero vantaggio competitivo di questa parte del nostro Paese in cui, nonostante gli atavici problemi in cui si dibatte, il territorio è ancora pressoché vergine e incontaminato?
Prendiamo ad esempio la mia regione. Nelle aree rurali dei paesi della Calabria, sud Italia, la cosiddetta “rivoluzione verde” che ha introdotto la meccanizzazione selvaggia, la chimica nelle produzioni usata senza criterio pur di azionare l’acceleratore della crescita, è arrivata casualmente con cinquanta anni di ritardo, solo quando finalmente cominciavano ad evidenziarsene i rischi per la salute umana, quando già iniziavano cioè ad invocarsi politiche di contrasto all’emergenza ambientale da parte di movimenti ecologisti e organizzazioni per la protezione degli animali che sviluppavano una maggiore consapevolezza dell’impatto del nostro stile di vita e delle nostre abitudini alimentari.
Ricordo di aver partecipato a molte conferenze sulle cause di questo mancato sviluppo dell’agricoltura calabrese. In queste riunioni il refrain girava sempre attorno agli stessi temi e soluzioni. Si diceva: occorre porre rimedio all’arretratezza dell’agricoltura calabrese che rimane poco sviluppata, non orientata al mercato ma a poco più dell’autosufficienza, bisogna superare la difficoltà ad associarsi in forme cooperative e passare da un forte individualismo ad una maggiore inclinazione all’associazionismo. Queste petizioni di principio però si sono sempre scontrate con la realtà: l’età media degli agricoltori è alta, quindi c’è poca innovazione e minore flessibilità ma piuttosto frammentazione delle imprese agricole; le imprese non hanno una dimensione economica tale da garantire un reddito sufficiente: alcune di esse vengono condotte part-time col risultato che nel complesso fanno numero ma non assicurano la produzione, in termini di massa critica, che il mercato richiede e che viene soddisfatta da poche aziende medie/grandi.
I contadini delle aree rurali sono vecchio stampo, carattere forte e spinta cocciutaggine, essi ancora accarezzano i propri prodotti, chiamano le proprie bestie per nome e si riposano alla sera non prima di aver guardato per l’ultima volta i loro campi arati illuminati dalla luce rossa e violacea del tramonto. Parlano poco, ma i loro volti scavati dal sole tradiscono ancora l’emozione per la bellezza della natura, e da quella prendono quello che offre, senza spingere né deformarne i cicli.
Un giorno mi trovavo a dialogare con uno di loro. Mi affascinava ascoltare i suoi aneddoti e i suoi rimedi naturali per la cura delle proprie bestie. Diceva…. ”la natura contiene in sé le medicine, basta saperla ascoltare”. Ad un certo punto mi lasciava per andare a mungere le sue pecore. Mi sarebbe piaciuto assistere e quindi aspettavo per vedere il gregge e invece, all’improvviso, lo vedevo montare su una sorta di camper attrezzato dicendo: “sono io che vado da loro…. sai sono al pascolo, se le faccio scendere a valle per mungerle le stresso e il latte non sarà così buono, quindi vado a mungerle direttamente dove si trovano”.
Altrove, invece, si pensa che il benessere animale sia far ascoltare musica classica alle vacche costrette in allevamenti intensivi in cui il solo spazio a disposizione per il movimento è quello del collo, giusto per arrivare al foraggio.
Da sempre penso che la natura sia stata benigna con la Calabria. Oltre che possedere gran parte del territorio ancora vergine, l’orografia ne sconsiglia investimenti di tipo intensivo. Il 90% del territorio è costituito da colline e montagne, dove è difficile consolidare processi di sviluppo di questo tipo. E questa che potrebbe rappresentare un limite è viceversa la vera risorsa. È quella che si potrebbe chiamare Backward innovation, l’innovazione dell’arretratezza. Mai come ora mi sembra che questa sia la chiave per immaginare un diverso e più rispettoso sviluppo.
Siamo ancora amici degli animali?
Nel 2018 è stata pubblicata una ricerca dai contenuti veramente inquietanti sulla biodiversità del nostro pianeta. Tra i dati voglio evidenziarne uno: il 60% dei mammiferi esistenti è rappresentato da suini e bovini, più degli esseri umani che rappresenta solo il 36% e appena il 4% è rappresentato da animali selvatici. Sempre la stessa ricerca attesta, a proposito di volatili, che il 70% di tutti quelli presenti sul pianeta è rappresentato dal pollame allevato e solo il 30% da animali selvatici.
Ovviamente i nostri consumi sono scelte personali, ma dobbiamo però essere consapevoli che sono indissolubilmente legati a un sistema di produzione i cui effetti collaterali hanno conseguenze impattanti sul pianeta e sull’intera comunità.
Per assecondare le nostre abitudini di consumo si deve allevare di più e per farlo si distruggono gli habitat per ricavare pascoli e se a questo aggiungiamo pesticidi, concimi e fertilizzanti, l’urbanizzazione, che riduce lo spazio riservato alle specie selvatiche e favorisce le possibilità di contatto con l’uomo, la crisi climatica, traiamo da soli le conseguenze sulle cause di questa drastica riduzione della fauna originaria.
Ma quali sono le conseguenze di questi disequilibri che spesso comportano delle vere e proprie cesure di quella catena alimentare che fa sì che la natura sia in equilibrio e che non si sviluppino quelle zoonosi alle quali abbiamo assistito inermi e che hanno fatto registrare il sacrificio di tante vite umane prima che si potesse porre rimedio attraverso la scienza medica?
Gli specialisti stimano al 70% le virosi umane fino ad oggi conosciute derivanti da un’interazione più o meno diretta tra animali ed esseri umani, compresa quella dell’attuale emergenza, il Covid 19. Trattasi di patologie cosiddette zoonotiche in quanto partono dall’animale e arrivano all’uomo attraverso un salto di specie del virus, un processo chiamato spillover.
Sembra incredibilmente attuale, quasi una profezia che si avvera, quanto scritto da David Quammen nel suo saggio “Spillover. L’evoluzione delle pandemie” pubblicato nel 2012, che tratta appunto di questo salto di specie. L’autore, che ha impiegato sei anni di lavoro di giornalista reporter a seguito gli scienziati al lavoro nelle foreste congolesi, nelle fattorie australiane e nei mercati delle affollate città cinesi, ed intervistato testimoni, medici e sopravvissuti, nel suo saggio afferma: “Non vengono da un altro pianeta e non nascono dal nulla. I responsabili della prossima pandemia sono già tra noi, sono virus che oggi colpiscono gli animali ma che potrebbero da un momento all’altro fare un salto di specie – uno “spillover” in gergo tecnico – e colpire anche gli esseri umani …”.
L’autore, con straordinaria lucidità, parla della diffusione dei nuovi patogeni e delle grandi epidemie e spiega come questi virus altro non sono che la risposta della natura all’assalto dell’uomo nei confronti degli ecosistemi e dell’ambiente. “Stiamo invadendo e alterando gli ecosistemi con sempre più decisione, esponendoci a nuovi virus e offrendoci come ospiti alternativi. Siamo troppi e consumiamo le risorse in modo avido, e ciò ci rende una specie di buco nero che attira tutto, anche i virus. Dobbiamo ridurre velocemente le attività che impattano sull’ambiente, ridimensionare la popolazione e porre un freno alla domanda delle risorse.”
Lo spillover che ha generato la pandemia di Covid-19, a quanto pare, è avvenuto in un mercato di Wuhan in Cina, uno di quei tanti deprecabili wet market in cui convivono animali selvatici e domestici e che li rendono super veicoli affinché il virus possa fare il salto di specie. Lo scenario più attendibile attribuisce a quel luogo il passaggio all’essere umano del coronavirus da un ospite intermedio, un pipistrello comunemente presente in Cina.
Ma è così raro questo evento? Non direi. I casi di zoonosi negli ultimi trenta anni sono cresciuti a dismisura. Ripercorriamole brevemente facendo l’excursus di quelle più salienti per capirne la portata devastante e l’emergenza che dovrebbe far riflettere tutti.
Nel novembre 2002, in un mercato cinese della provincia del Guangdong (Canton) in Cina si registra per la prima volta la Sars, causata da un coronavirus trasferitosi dai pipistrelli prima agli zibetti e poi agli umani; nel 2012 compare la Mers, sviluppatasi nel Medio Oriente e trasmessa dai pipistrelli ai cammelli fino all’essere umano. Anche l’Ebola, individuata in Congo già negli anni 70, viene veicolata agli umani da un pipistrello, l’Eidolon helvum.
Okay, si dirà, si tratta di animali presenti in zone selvatiche. Ma la verità è che neanche gli allevamenti di animali utilizzati a scopo alimentare sono immuni dal diventare veicolo di pandemie. Il primo caso noto ha riguardato l’encefalopatia spongiforme bovina (BSE), nota anche come morbo della mucca pazza, scoperto in Gran Bretagna nel 1986 ed esploso negli anni 90. Si scoprirà in quegli anni che agli animali allevati venivano somministrati mangimi arricchiti con farine prodotte dall’incenerimento delle ossa di altri bovini: una sorta di cannibalismo, quindi. Risultato: il Regno Unito è stato l’epicentro dell’epidemia.
Nel 2003 molte specie di uccelli, inclusi polli e galline, contrassero l’influenza aviaria e diventarono veicoli di trasmissione agli uomini. Originaria delle zone del Sud Est asiatico, questa epidemia si è poi diffusa in tutto il mondo, Italia compresa, uccidendo oltre un migliaio di persone e causando l’abbattimento, soprattutto a scopo preventivo, di milioni di volatili rinchiusi negli allevamenti.
Nel 2009 è la volta dell’influenza A/H1N1, cosiddetta suina, in particolare tra Stati Uniti e Messico, una patologia trasmessa dagli uccelli, prima ai maiali e poi all’uomo.
E che dire dell’HIV–AIDS, autentica piaga pandemica del secolo scorso? È ormai accertato che il virus umano dell’HIV (Human Immunodeficiency Virus) derivi da mutazioni di vari ceppi del virus, con il salto di specie in un’epoca non ben precisata in alcune regioni dell’Africa occidentale sub-sahariana.
E c’è un altro rischio odierno che non può e non deve essere sottovalutato prima che diventi una vera e propria emergenza sanitaria, ed è rappresentato dal surplus di cinghiali che invadono i territori di tutto il Paese, per la stragrande maggioranza frutto di incroci con suini domestici, che si moltiplicano a dismisura proprio per le caratteristiche della nuova specie meticcia che non teme l’uomo e si spinge fino ai centri abitati per trovare cibo. È ormai noto, e ci sono evidenze sanitarie, che il cinghiale è serbatoio di molte patologie trasmissibili all’uomo quale la trichinellosi e sicuramente trasmissibili agli allevamenti di suini come, appunto la “peste suina”. Ma non sono neanche da sottovalutare i piccioni o i gabbiani che invadono le città rovistando tra i rifiuti ed inondandole di guano (questo il nome dei loro escrementi) con il concreto rischio di diffondere microrganismi dannosi per l’uomo e altri animali.
Credo sia pacifico considerare ormai interdipendenti la salute dell’uomo, dell’animale e dell’ambiente. La sorveglianza della fauna selvatica dev’essere un imperativo che deve far tenere alta l’attenzione soprattutto sul fronte dei selvatici i quali sempre più si avvicinano alle nostre città alla ricerca di cibo o condividono pascoli e foraggi con gli animali di allevamento perché, come insegna l’attuale virus ed i precedenti…. il salto di specie è sempre in agguato.
*Rosetta Alberto is an economist who deals with social agriculture and the local development of rural and internal areas. Very attached to her land, Woman very tied to her land, The Calabria, Rosetta is General Director of CRISEA, Center of Research and Advanced Services for Rural Innovation. She believes that for sustainable development it is necessary to combine tradition and innovation.
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