by Massimo Fotino & Fernando Rocca, exclusive for The diagonales
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Non sarà mai vinto colui che saprà
essere saggio e valutare a fondo le cose
anche nei momenti di euforia. (Tito Livio)
L’emergenza Covid19, di cui stiamo affrontando le difficili e incerte fasi di gestione, successive allo stadio acuto degli scorsi mesi, ha mostrato alcuni aspetti molto rilevanti per la dimensione e le azioni di sviluppo locale dei territori, in particolare di quelli rurali.
Pare evidente, infatti, una nuova consapevolezza generale che la necessità di effettuare dei riaggiustamenti nell’organizzazione dei territori interni sia da affrontare in maniera inedita e con una strategia che guardi al di là del semplice far fronte alla sola questione sanitaria. Covid19 ha dimostrato che vadano cambiate le modalità in cui si è finora pensato i nostri sistemi locali, i quali sono chiamati ad una profonda rivisitazione dei propri assetti ma soprattutto delle loro culture sociali, amministrative, istituzionali.
In una frase: Covid19 ha portato alla ribalta l’esigenza di produrre significative innovazioni sociali nei territori non urbani e periurbani in un’ottica che renda conto della dicotomia tra aree di agglomerazione (le città) e di decentramento/disaggregazione (le campagne) [1].
Le aree interne, che costituiscono l’ossatura dei nostri territori, hanno globalmente risposto all’emergenza interrogandosi profondamente sulle proprie capacità di resilienza e di risposta e individuando nella solidarietà e partecipazione collettiva non solo una risposta episodica quanto l’elemento centrale capace di attivare processi comunitari su larga scala finalizzati a creare quel “corpo sociale rurale” che, partendo dalle prerogative del bene “terra”, sia in grado di fornire protezione, sicurezza e benessere alle popolazioni che la abitano, in una logica di auto-produzione e di empowerment [2].
Si tratta di un processo dagli esiti ancora imprevedibili ma su cui già possiamo avviare un ragionamento, a partire dall’osservazione che questi cambiamenti presentano una duplice forma.
Da un lato, pare evidente che i centri rurali siano stati visti nella fase del post Covid19 come dei luoghi “salubri” e quindi come produttori di salute e benessere per via dell’ambiente pulito e non contaminato, oltre che come insediamenti dotati di forme di aggregazione “ecologica” di contro ai fenomeni di agglomerazione urbana che, è ormai manifesto, è considerato uno dei veicoli di propagazione della pandemia.
Le aree interne (e le statistiche sul turismo estivo e sulle scelte di mobilità delle persone e famiglie effettuate nella stagione 2020) hanno rappresentato una scelta di soggiorno sicuro, per via dei loro punti di vantaggio: spazio sano, a bassa densità di popolazione, con ritmi di vita non stressanti, cibi buoni, eccetera.
Da un altro lato, però, ovvero da quello interno alle dinamiche delle aree rurali stesse, questa temporanea rinnovata reputazione ha fatto emergere anche i punti di debolezza già presenti. Se per andare in vacanza si è scelto di soggiornare nei villaggi e centri rurali, d’altro canto di motivazioni per non andarci ce ne sono state altrettante: la carenza di infrastrutture e di servizi (soprattutto sanitari) in tali aree, il depopolamento, le difficoltà legate alla mobilità che fa sì che diventi poco conveniente localizzare imprese in aree non servire da strade e, infine, una endemica dipendenza patologica dall’assistenza finanziaria degli enti sovralocali (soprattutto in Europa) nonché il difficile rinnovamento di una politica che fa fatica a governare complessi processi, a coinvolgere le giovani generazioni, ad attivare un passaggio intergenerazionale virtuoso.
Come superare allora questi fattori di debolezza e basare lo sviluppo locale sui punti di forza citati?
Pare chiaro che in questa direzione, il ruolo delle amministrazioni locali divenga cruciale. Ma tale sarà se esse, momento di diretto contatto con i cittadini, sapranno soprattutto dive.nire legame con i loro bisogni, attivando idonee azioni che mettano in moto un processo di potenziamento e coesione. Il che significa dare attenzione al bene pubblico, visto come valore per tutti, anche per chi porta interessi privati o imprenditoriali.
Ma vuol dire anche, dal lato della sfera collettiva, saper educare all’idea che tutti i bisogni sono legittimi e vanno soddisfatti: quelli dei giovani e degli anziani, quelli degli abbienti e dei meno abbienti, delle donne, dei diversamente abili, eccetera.
Saper fare crescere quindi ma in modo integrato, condiviso e partecipato. Trasformare i paesi in comunità: questi i temi centrali delle amministrazioni territoriali oggi.
E con quali passaggi?
Ne tracciamo alcuni, che riteniamo quelli più “portanti”, e che possono essere visti come realistici pilastri dello sviluppo.
Il primo ha a che fare con il bene primario di un territorio: la terra.
Nella terra si lavora, si respira aria buona, si produce cibo sano e, soprattutto, si valorizza un patrimonio esclusivo e fondamentale: l’identità.
Si può innescare, a partire dalle terre viste come bene comune, un meccanismo identitario e innovativo al contempo?
E se sì, come?
Innanzitutto prendendo atto di quello che non va, del disagio latente presente nei nostri centri urbani.
Luoghi dove le donne non lavorano o non conciliano i tempi di vita e lavoro.
Dove il problema si riverbera sugli anziani che, in mancanza di servizi di prossimità, devono accudire i loro figli (anche disabili).
Dove i giovani vivono una complessa condizione di marginalità e, spesso, di devianza. Dove non c’è alfabetizzazione informatica (necessaria soprattutto ora in tempo di Covid19) perché spesso soprattutto negli insediamenti più isolati non ci sono servizi di rete e perciò non raggiunti da internet. Il che significa grandi disagi perché le madri non possono seguire i figli a scuola dato che questa è distante (e ciò, in caso di non riapertura o procrastinazione della stessa creerà forti disparità). Luoghi dove la mobilità è in sofferenza e molto spesso i centri rurali non hanno strade carrabili. E ancora. Luoghi sani ma impreparati ad affrontare i problemi della salute. Dove non esistono servizi territoriali di prossimità, soprattutto sanitari, e si ha la sensazione di non essere protetti oltre ad avere fenomeni di mortalità dovuta alla scarsa e difficile prevenzione.
In secondo luogo, occorre dotarsi di un piano, di una idea, di una strategia al cui centro ci sia la valorizzazione della terra, soprattutto di quella demaniale (ed è tanta), soggetta ad usi civici, al fine di sviluppare servizi che non mirino al profitto ma invece al ricavo. Dove si combatta l’abbandono di boschi, aree, terreni e il conseguente possesso abusivo e spesso non lecito o insalubre.
La terra per la comunità, allora, al centro dell’attenzione dell’ente locale.
E non c’è dubbio che l’accompagnamento del pubblico, la messa a disposizione delle superfici e l’investimento nei processi che possono scaturire da un uso corretto e collettivo dei beni comuni, agevolerebbero anche il percorso di intercettazione di privati che, spinti fortemente dal lato sociale, troverebbero “conveniente” avviare attività significative per la comunità.
Il bene pubblico terra, insomma, deve tornare ad essere funzionale al benessere pubblico per il quale è nato creando una “banca delle terre” che metta a frutto quei terreni mettendoli a disposizione di vaste operazioni di valorizzazione che portino lavoro, imprese, pulizia, ambiente sano. E, perché no, bellezza.
Il secondo elemento si affianca a questo.
È la tradizione.
L’ente pubblico concepito per essere volano di uno sviluppo in forma comunitaria deve creare più che vuoti e squallidi capannini costruiti solo per ottenere sussidi o scimmiottare aree industriali, come finora purtroppo è stato, ma incubatori di tradizione e innovazione. Luoghi, dove stiano insieme il passato degli artigiani e dei mestieri e le tecniche e tecnologie moderne che superano i confini (anche commerciali). Luoghi dove il vecchio (che sa) si metta accanto al giovane (che deve imparare).
Sostenere questo processo con il supporto di una formazione professionale centrata sul territorio può chiudere il cerchio, garantendo che il mestiere, la qualifica, siano al passo con i tempi, i titoli siano spendibili sul mercato del lavoro e le competenze divengano realmente innovative e dotate delle skills adeguate a mercati che velocemente mutano le richieste.
Sono solo due esempi ma fondamentali.
Essi sono importanti in quanto la governance locale sappia essere orientata in direzione della coesione sociale.
Senza quella, tute le iniziative non potranno che essere monche. Mancheranno dell’aspetto collettivo che le sostenga, che dia loro il consenso, e non otterranno mai il vero risultato utile: creare una comunità.
Le amministrazioni comunali, sono al centro di questo disegno e, in quanto enti più prossimi alla cittadinanza e le sole in grado di giocare un ruolo di collettore delle istanze della propria comunità mettendole a sistema.
Per realizzare queste priorità, occorrono innanzitutto capacità etiche di azione.
Non solo quelle tecniche del saper come fare le cose ma quelle morali del farlo per il bene comune. L’esperienza di decenni mostra che da questo punto di vista si è assistito al catastrofico degrado del rapporto tra cittadini e loro “governanti”.
Ciò ha negato chances alla possibilità di avere un ambito neutro, in cui gli interessi legittimi sono certamente rispettati ma mai a scapito dei legittimi bisogni collettivi o di azioni di sviluppo dell’empowerment comunitario, ovvero del potenziamento della stima di sé, dell’emersione dei talenti, della valorizzazione delle risorse umane, agricole, energetiche, patrimoniali e identitarie della comunità.
Sociale e politico non possono più permettersi oggi di essere due termini separati e incompatibili.
È dal loro riavvicinamento o negoziazione, basate sulla reciproca convenienza, che dipendono il recupero, mantenimento e utilizzo delle tradizioni, il valore aggiunto dell’innovazione, l’efficienza dei servizi e la stessa efficacia degli interventi. Ogni azione che non abbia questo obiettivo non è una azione utile alla coesione sociale.
E senza quest’ultima non ci sarà uno sviluppo vero ma soprattutto adeguato alle drammatiche domande della comunità ed ai drammatici tempi che la attendono.
[1] Su questo tema, si veda www.diagonales.it/lesson/oltre-il-post-covid19/ “Oltre il post-covid19. quale spazio di manovra per le relazioni sociali?” di Cleto Corposanto, Julio Echeverría, Massimo Fotino, dove si afferma: “… non v’è dubbio che i luoghi di evidenza dell’agglomerazione, ossia le città, siano lo spazio della vita attiva, frenetica, mobile mentre le campagne sono percepite (in maniera magari romantica ma non per questo poco sentita) come il topos della calma, del riposo, della contrapposizione ai ritmi frenetici praticati nelle società avanzate, e naturalmente dell’ambiente sano. Non è un caso che la pandemia sia soprattutto scoppiata nei grandi centri urbani e molto meno nelle campagne. Questa considerazione non potrà non orientare in modo diverso i comportamenti sociali verso nuove abitudini, consumi e ovviamente stili di relazione. Ma se già prima non era facile conciliare le due dimensioni, oggi il compito non è affatto semplice, così come è complessa l’opera di rigenerazione urbana e di fondazione di un nuovo rapporto della città con il suo intorno”.
[2] Esempi significativi a livello europeo di questa risposta delle aree interne sono stati raccolti da ENRD – European Network for Rural Development, nel quale sono anche illustrati sia il coping di agricoltori e imprese agricole, sia le misure europee adottate per supportarli.
Massimo Fotino, sociologo a Trento, insegna “Mercato del lavoro e progettazione sociale” all’Università “Magna Graecia” di Catanzaro. E’ stato Direttore del Cerisdi “Centro di Ricerche e Studi Direzionali” fondato da Padre Ennio Pintacuda a Palermo. Giornalista professionista dal 1994, è fondatore ed ispiratore della Diagonal Associations Network e della piattaforma web The diagonales.
Fernando Rocca, italiano, è giurista esperto in politiche attive del lavoro e diritto sindacale con particolari esperienze al settore pubblico. Organizzatore e relatore di vari convegni in materia di contrattazione collettiva e lavoro pubblico, è stato Segretario della Camera del lavoro per la Cgil (Confederazione Generale Italiana Lavoratori) e Segretario generale della Funzione Pubblica per lo stesso sindacato. Ama profondamente la montagna ed è coinvolto nelle tematiche del suo sviluppo.
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