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by Mario Campli*, Italy, excusive for thediagonales –
In questo tempo di “angoscia” (da angus-stretto) che paradossalmente ci costringe a stare per tempi lunghi in luoghi ristretti e, nel contempo, a praticare forme di distanziamento fisico sociale, cui necessitano larghi spazi, si moltiplicano «Appelli», di vario tipo, ma tutti tendenti all’universale e al radicale. Non nascondo un certo disagio nel leggerli. Lo faccio, però, per comprendere dove le persone, le comunità, i gruppi sociali e le società pensano di dirigersi. Avverto, mentre procedo a questa indagine, fenomeni da ‘cortocircuito’.
Nel dizionario, il termine tecnico viene così definito: “riduzione parziale o totale della resistenza, o dell’impedenza, di un tratto di circuito elettrico, dovuta a un contatto diretto fra i suoi estremi: può avere conseguenze dannose per l’eccessivo riscaldamento che ne consegue”. In termini figurativi: “difficoltà, cedimento, disorientamento”. Come modo di dire scherzoso – è sempre il dizionario ad istruirci – “andare in cortocircuito, cedere improvvisamente allo stress”. È quel che sta accadendo in larghi settori della società; e la cosa mi preoccupa non poco, in quanto trattasi di un fenomeno ben noto e già all’opera; adesso nel contesto pervasivo invadente della pan-demia percepisco che i toni si stanno alzando e – siccome tonus facit musicam – il pericolo che la «orchestra» vada fuori controllo appare concreto.
“Il Covid-19 non rappresenta la Torre di Babele il cui crollo confonde i linguaggi degli esseri umani – ha scritto recentemente Giuliano Cazzola – è piuttosto l’enorme palla d’acciaio che riporta l’ordine tra i concertisti nel film “Prova d’orchestra” di Federico Fellini“.
Al di là delle metafore ( pure molto utili per apprendere buone lezioni come quella – la presa della Bastiglia – proposta dallo scienziato Guido Silvestri: “Uomini e virus- storia delle grandi battaglie del nostro sistema immunitario”, appena uscito e in vendita presso le edicole dei giornali), quello che vorrei evidenziare è la inopportunità di mescolare o giustapporre analisi della società a situazioni calamitose; sollecitando visioni culturali (con conseguenze e valenze politiche) che, cortocircuitando, generano conseguenze dannose per l’eccessivo riscaldamento che ne consegue.
“Vi è una quota importante della popolazione – scrive Enrico Bucci – che ha scoperto che esistono infinite ipotesi scientifiche le quali possono guadagnare un apparente supporto da quella che si chiama correlazione”.
Appello: “Lettera nella tempesta: un appello a Chiesa e istituzioni”. Dove leggo:
“La crisi in atto, causata dalla pandemia da coronavirus, può diventare l’occasione straordinaria per maturare una coscienza sofferta della insostenibilità di un sistema economico che è causa di disuguaglianze profonde, sia a livello planetario che a livello locale, e che semina morte (…) È l’ora di ricostruire insieme, di cercare proprio in questa sofferenza il senso di umanità e di fraternità che l’economizzazione della vita quotidiana ha compresso e spesso ridotto ad utilitarismo“.
Appello: “Celebriamo il 22 aprile la giornata mondiale della Terra con una preghiera civile: mai più come prima”. Leggo:
“L’epidemia provocata dal nuovo virus SARS-CoV-2, con il suo tragico carico di morti e miseria, serva da insegnamento. La Terra è un macrorganismo vivente in cui tutto si tiene: biologia, ecologia, economia, istituzioni sociali, giuridiche e politiche. La salute di ciascun individuo è interconnessa e dipendente dal buon funzionamento dei cicli vitali del pianeta. (…) Non c’è alcun “nemico invisibile”, tantomeno imprevisto e sconosciuto che ha dichiarato guerra al genere umano. Nessuna “catastrofe naturale” e nessun “castigo di Dio” si sono abbattuti su di noi. Al contrario è il sistema economico dominante che provoca un progressivo deterioramento dei sistemi ecologici, l’estinzione di massa delle specie viventi, il surriscaldamento del clima. Tutto ciò aumenta i rischi, la vulnerabilità e abbassa le difese immunitarie degli individui. (…) La sottovalutazione dei fenomeni in atto, l’impreparazione e l’incompetenza delle istituzioni pubbliche ad ogni livello – laddove è prevalso il modello neoliberista – hanno indebolito i presidi socio-sanitari con de-finanziamenti e privatizzazioni“.
E con gli “appelli” si moltiplicano i “commenti a caldo dei filosofi” (cito da Gabriele Pedullà, su L’Espresso). Pedullà, che insegna Letteratura contemporanea e Letteratura italiana all’università di Roma Tre, cerca di “resistere al fascino delle analogie” e scarta la Peste Nera, “il numero dei decessi sconsiglia in partenza qualsiasi comparazione”. A chi non volesse rinunciare alle analogie, Pedullà ricorda il grande terremoto di Lisbona, novembre 1755. Certo, la diversità c’è ancora – ed è profonda: allora trattavasi di una calamità territoriale/nazionale, ancorché di dimensioni enormi (“75mila vittime su un totale di 150mila abitanti e una perdita secca tra il 40% e il 300% del prodotto interno lordo del Portogallo di allora”) – ma le analogie possono essere ben considerate e studiate sul piano della pandemia delle idee. Infatti
“la devastazione di Lisboa rappresentò un trauma per due o tre generazioni di europei [e l’Europa, allora era il ‘mondo’], i quali vissero quella tragedia come una sorta di test inaggirabile per le credenze religiose e le teorie dei filosofi sulla natura e sulla società (…) si potrebbe sostenere che si trattò della prima grande battaglia filosofica combattuta a mezzo stampa”.
Le forze in campo furono, i Gesuiti da una parte (“denunciavano la generale corruzione dei costumi, che avrebbe indotto Dio a incenerire Lisboa come una novella Sodoma”) e dall’altra gli illuminsti: Voltaire, Rousseau, Kant. Questi – ovviamente divisi – avevano come bersaglio un mostro sacro come Leibniz che nei suoi “Saggi di teodicea” aveva congelato l’uomo in una sorta di “ottimismo metafisico”, sempre nel perimetro della volontà e bontà divine. Ma nello scontro con i Gesuiti Voltaire si ritrovò colpito da fuoco amico: Rousseau “in nome della innocenza della Natura e della corruzione [sempre opera dell’uomo] della civiltà, prese le difese dell’imprescrutabile disegno divino”.
Il giovane Kant, appena trentunenne, fece un’altra scelta: si tenne lontano dalla polemica immediata, mise studiare e in poco tempo raccolse, mai spostandosi da Königsber, una massa di notizie e documenti, nella precisa volontà di dare una veste scientifica alle sue riflessioni; scrisse: «Non intendo riportare la cronaca delle sofferenze che esso ha inflitto agli uomini, né fornire l’elenco delle città rase al suolo o degli abitanti sepolti sotto le macerie… Una simile narrazione sarebbe commovente e, forse, toccando il cuore, potrebbe anche avere un effetto edificante. Io tuttavia affido questo tipo di racconto a mani più esperte. Descriverò qui solo il lavoro della natura, le sorprendenti circostanze naturali che hanno accompagnato il terribile evento e le loro cause…». L’intento del padre dell’Illuminismo era rafforzare il programma della nuova scienza newtoniana, impersonale ed astratta, per dare una descrizione oggettiva del fenomeno, diversa, per esempio, dalle implicazioni qualitative e metafisiche: sia dei teologi sia anche di filosofi, che al di fuori di una teologia specifica, miravano a costruire una religione naturale; come Hegel che, ottant’anni dopo, scriveva nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio: «I terremoti, i vulcani e le loro eruzioni possono essere considerati come appartenenti al processo della rigidezza, della negatività dell’esser per sé che si fa libera, e cioè appartenenti al processo del Fuoco» (cf Wikipedia, l’enciclopedia libera).
Dopo questa rapida immersione in una storia del pensiero sorto per esprimere lo sforzo delle intelligenze umane di fronte ai cataclismi e in generale al male nel cuore dell’umanità, torno a Covid 19 e, anche se i numeri sconsigliano paragoni, “le cose sono molto diverse però– scrive il prof. Pedullà – se guardiamo agli effetti della pandemia sulle idee”. Ed è proprio a questi che voglio dedicare qualche pensiero, puntando l’attenzione a questa sottolineatura che il docente di Letteratura contemporanea ci offre: “Allora i contemporanei di Boccaccio (cfr la Peste Nera) continuarono a ragionare sul disastro con le categorie tradizionali della punizione divina: oggi invece la crisi sanitaria ha preso subito la forma di una requisitoria contro quarant’anni di ordine neoliberale. Una intera visione del mondo viene messa sotto accusa – cosa che nel 1348 non avvenne”.
Fare una sintesi, seppure misurata e diversificata, delle prime reazioni dei filosofi contemporanei, in queste tristi settimane – “i commenti a caldo dei filosofi” – è un’impresa alla quale potremmo dedicare una ricognizione fra qualche mese. Adesso potrebbe risultare utile evocare qualche termine di paragone con linguaggi antichi – ma attualissimi – che ci pare si possano rscontrare negli “Appelli” sopra richiamati (e che il lettore potrà consultare nel dettaglio attraverso la abbondate documentazione sul web). In considerazione della visione cattolica degli estensori dell’appello: “Lettera nella tempesta” (promossa dal gesuita padre Pino di Luccio e dal sociologo Giorgio Marcello insieme allo storico della Chiesa Sergio Tanzarella). Io mi chiedo e agli estensori dell’appello chiedo: “che tempo è quello che viviamo? che nome gli diamo?” Alla “Lettera dalla tempesta” propongo la Lettera di Paolo di Tarso ai Corinti. Scrive Paolo:
«Tuto de femì, adelfòi, o kairòs sunestalménos estìn- Questo poi dico, amici, il tempo contratto è». Paolo, che scriveva in greco, aveva più di un vocabolo a disposizione per dire «Tempo»: krònos, kairòs, éskaton. Il primo evocava un tempo ordinario, normale: era il vocabolo più usato; il secondo evocava il ‘tempo-di-ora’; il terzo evocava il tempo-della-fine (non la fine del tempo, ma il suo compimento). Egli, per rivolgersi ai suoi amici di Corinto, opta per «kairòs». Quella parola greca veniva usata ad indicare il comportamento del felino che si contrae sulle zampe prima di spiccare il salto che lo porterà a raggiungere il suo obiettivo vitale. In profondità, per Paolo doveva trattarsi di una buona notizia: nel senso di un tempo pieno di contraddizioni e responsabilità, che ti mette urgenza e ti trasmette un permanente stato di allerta e una tensione massima, e / ma ti proietta contemporaneamente verso un esito positivo. Sai che puoi fallire e sai che c’è un obiettivo che attende la tua missione, e che devi affrettarti. Discernere la natura del tempo che ci passa davanti, o nel quale noi passiamo, attraversandolo, è cruciale. La problematicità sta certamente nell’attraversamento, ma il dramma (sic!) sta nella proritaria riflessione e opzione circa la “natura” del tempo che ci attraversa o che noi attraversiamo. Nei numerosi “Appelli” (e spesso anche negli articoli di filosofi e scrittori – di grande letteratura), gli “appellatori” optano per «éskaton», e …vedono davanti il “giudizio universale”: è quell’atteggiamento chiamato, superficialmemte, “apocalittico” (apocalisse, significa: rivelazione). A cosa mirano, gli appellatori, con chi – una volta detratti i molti che hanno scansato? In una lunga e assai istruttiva conversazione il Rémi Brague, cattolico, filosofo di primaria grandezza, dice:
“…il guaio è che chi si esprime sulla pandemia che stiamo attraversando […assai istruttiva la scelta della parola!] la vede sia come una conferma delle sue analisi precedenti, sia come una prefigurazione dei suoi desideri per le diagnosi e i rimendi futuri che possono variare completamente. Non voglio davvero far parte di questa folla in crescita”.
*Mario Campli, Italian, sociologist, was a member of the European Economic and Social Committee from 2006 to 2015. Author of several books, including “Agricoltori europei” (European farmers), Franco Angeli, 2000, and recently with Alfonso Pascale “La casa comune è casa di tutti” (The common house is everyone’s home), Informat edizioni, 2015, a careful and reasoned reading of the encyclical “Laudato si” and “Il tempo d’Europa” (Europe’s time), Cavinato Editore International, 2017.