by Orlando Sapia, exclusive for The diagonales
Il mondo penitenziario normalmente poco considerato dai grandi media di informazioni, salvo che per annunciare l’ingresso di qualche public enemy, è recentemente venuto alla ribalta delle cronache giornalistiche e degli scontri politici per via dell’emergenza sanitaria causata dalla diffusione del Covid-19. Purtroppo, anche nelle carceri italiane è giunto il dramma del contagio, colpendo sia i detenuti che il personale di servizio.
Il governo, tuttavia, nel recente decreto legge, ribattezzato “Cura Italia”, ha dedicato solo due articoli, 123 e 124, alla vicenda. In sostanza, si è disposto che nei casi di soggetti con pena o residuo di pena non superiore ai diciotto mesi sia possibile godere della misura della detenzione domiciliare attraverso un iter semplificato, specificando tuttavia che, laddove la pena sia superiore a sei mesi, la detenzione domiciliare avrà luogo con le modalità del cosiddetto “braccialetto elettronico”.
La logica è stata chiaramente quella di favorire la fuoriuscita rapida dagli istituti di coloro i quali, comunque, avrebbero potuto godere di detto beneficio ma in tempi più rapidi, in modo da poter così fronteggiare un’eventuale emergenza sanitaria negli istituti di pena.
Le misure prese dal governo, a dire il vero, sono poca cosa e peraltro non saranno applicate ai cosiddetti “ostativi”, agli autori di maltrattamenti in famiglia e di stalking ed ai detenuti sanzionati disciplinarmente perché coinvolti nelle rivolte avvenute nel mese di marzo[1].
Ciò nonostante qualcuno ha avuto l’ardire di affermare che ci troveremmo dinanzi ad un indulto[2]. È necessario chiarire qui che la detenzione domiciliare è a tutti gli effetti una pena, rientrando nel novero delle misure alternative al carcere previste dall’Ordinamento Penitenziario.
Altre accese polemiche sono sorte in seguito allo scandalo mediatico della concessione a circa trecentosettantasei presunti boss mafiosi della misura della detenzione domiciliare[3]. In realtà, si trattava di detenuti in alta sicurezza, di cui solo quattro al 41 bis[4]. In tutto ciò è passato assolutamente in sordina il dato che nei casi più eclatanti, quelli dei boss Zagaria e Bonura, la detenzione domiciliare non è stata concessa ai sensi dell’art. 123 del D.L. “Cura Italia”, ma ai sensi degli artt. 146 e 147 del codice penale, promulgato nel 1930 sotto il fascismo (è sempre bene ricordarlo…), che riguardano il differimento della pena per condizioni di salute incompatibili con lo stato detentivo o comunque gravi. Insomma, molto rumore per nulla.
Le politiche legislative ipertrofiche in materia penale/penitenziaria degli ultimi decenni sono stata la causa primigenia dell’aumento vertiginoso della popolazione carceraria e della conseguente tragedia del sovraffollamento, che è valso all’Italia svariate condanne internazionali da parte della CEDU per violazione dell’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo (divieto di tortura, trattamenti e pene inumane), nonostante i tassi di commissione dei reati siano in costante calo da diversi anni.
Insomma, i reati diminuiscono, ma le pene si sono allungate ed uscire dal carcere diviene più difficile e richiede più tempo. Ciò perché si è posto al centro della visione politico – legislativa non la sicurezza dei diritti ma un’idea astratta di sicurezza, sempre più distante dai diritti delle persone, purtuttavia necessaria a gestire una società attraversata in maniera sempre più consistente dalla povertà. In tal senso, depone il dato relativo all’aumento esponenziale del numero dei poveri, tant’è che attualmente vi sono oltre cinque milioni di persone in condizione di povertà assoluta.[5]
È oggi più che mai necessario, anche in virtù dell’emergenza sanitaria in corso, superare la logica panpenalistica e carcero-centrica che regna incontrastata nel dibattito politico. È necessario ripensare le parole che usiamo guardando alla Costituzione in quanto fondamento della nostra società.
Ad esempio, le parole amnistia e indulto non devono scandalizzare. Si tratta di istituti giuridici di rango costituzionale, il cui utilizzo è stato costante durante tutta la vita dello Stato Italiano sino alla riforma costituzionale dell’art. 79, fatta nel 1992. Riscoprirli oggi, aprendo un dibattito finalizzato a restituirgli agibilità politico-legislativa, non ha il significato di perdonare il reo e così violare i diritti della eventuale vittima, ma rappresenterebbe l’utilizzo di strumenti eccezionali in una situazione oggettivamente eccezionale. Si tratterebbe di una clemenza per ragioni di giustizia, tesa da un lato ad evitare gli effetti di una desocializzazione conseguente alla drammatica realtà del sovraffollamento carcerario[6] e, dall’altro, ad intervenire in un contesto di emergenza sanitaria che potrebbe travolgere prima il carcere e poi il resto della società.
Sempre partendo dalla Costituzione, l’art. 27 dispone che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del reo”. Il legislatore costituente opera il proprio riferimento alle pene, non alla pena e nell’articolo dedicato alla funzione della pena non fa alcun riferimento al carcere. Già in Costituzione è presente una logica penale non assolutamente carcero-centrica, che pone la dignità umana, cioè i diritti umani, quale limite nell’esecuzione della pena e ne sancisce il carattere rieducativo, finalizzato quindi a riaggregare il soggetto condannato nel consorzio sociale.
In prospettiva, sarebbe necessario operare in ambito politico-legislativo, affinché il catalogo delle pene principali (art. 17 del Codice Penale) possa già prevedere privazioni della libertà differenti da quella carceraria, come ad esempio era il caso della reclusione/arresto domiciliare previsto dalla legge delega n. 67 del 2014 e mai attuato non essendo stati emanati i decreti attuativi dall’esecutivo al tempo in carica.
Sarebbe, inoltre, opportuno consentire un uso più ampio delle già esistenti misure alternative alla detenzione e, soprattutto, dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Si tratta di due esempi che alleggerirebbero di molto il numero dei detenuti e consentirebbero di potenziare il filone dell’esecuzione penale esterna, dandogli così quell’importanza che merita.
Tuttavia, l’emergenza si fa sempre più pressante ed il carcere rischia seriamente di divenire una tragedia annunciata. È allora necessario agire rapidamente, accogliendo quelle indicazioni che provengono dai vari corpi sociali (magistratura, avvocatura, mondo accademico)[7] e, pertanto, implementare le misure previste nel D.L. “Cura Italia”, affinché possa essere adeguatamente ampliata la platea dei destinatari, disinnescando così una pericolosa bomba epidemiologica che, nel caso esplodesse, colpirebbe anche coloro i quali stanno fuori le mura.
In definitiva, è più che mai necessario liberarsi immediatamente, se non della necessità, per lo meno della centralità del carcere.
Siamo dinanzi ad un bivio ed oggi, per via della attuale crisi sanitaria ed economica, il problema si ripresenta in tutta la sua urgenza. Bisogna scegliere definitivamente se andare verso una forma di Stato che massimizza l’utilizzo del sistema penale, implementandolo di nuove fattispecie, continuando ad aumentare gli edittali di pena, rendendo il processo così veloce da smaterializzarlo in nome dell’efficienza, ed, infine, costruirà grandi città penitenziarie in cui stipare i marginali sociali; oppure verso uno Stato che si impegni nella realizzazione di quel programma che è la nostra Costituzione, garantisca la sicurezza dei diritti e utilizzi il sistema penale in una logica di extrema ratio.
[1] http://www.ondarossa.info/newsredazione/2020/03/rivolta-nelle-carceri-napoli-e-salerno
[4] https://www.ildubbio.news/2020/05/13/carcere-lemergenza-covid-non-e-finita/
[5] https://www.ilsole24ore.com/art/istat-oltre-5-milioni-italiani-poverta-assoluta-al-sud-1-10-AE8DTVCF?refresh_ce=1
[6] Vincenzo Maiello, Clemenza e sistema penale, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007.
[7] Osservazioni e proposte del Consiglio Direttivo dell’Associazione Italiana Professori di Diritto Penale, 23 marzo 2020
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Orlando Sapia, Italiano, è avvocato e si occupa di diritto penale. Formatore e relatore in vari convegni, è Responsabile dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Catanzaro, Sud Italia. Ha scritto: Pena e sistema penale verso la prospettiva del diritto penale minimo, per la rivista “Diritto & Dintorni”, 2014 e con Carlo Petitto La pena tradita, il sistema penale tra ossessione securitaria e carcerazione della povertà, Ed. Rubettino, 2017.