Bisogna davvero avere fede nella normalità?

dalle elezioni USA al funzionalismo di Talcott Parsons – riflessioni giuridiche e sociologiche sui comportamenti individuali e collettivi

by Domenico Bilotti, Italy, exclusive for The diagonales

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Bernie Sanders ha deciso di ritirare il proprio nominativo dalla corsa per il candidato alla Presidenza degli Stati Uniti nelle Primarie democratiche: la sfida (bisogna capire se si celebrerà davvero nei tempi previsti) sarà tra Donald Trump e il democratico Joe Biden, più gradito alle èlite nord-americane che con le ricette marcatamente social-democratiche di Sanders non hanno mai avuto molto in comune. Anzi, ancora una volta, quel sistema di formazione del potere e previamente del consenso è riuscito a far apparire il programma della Sinistra dem come gravemente antistorico, superato, noioso.

Al di là dei demeriti personali e comunicativi che lo stesso Sanders potrà effettivamente avere, il suo programma di potenziamento dei diritti sociali e di regolamentazione di una ferma presenza pubblica in economia, per l’America, non sarebbe stato certo routine o copione già visto, ma esperienza di governance largamente inedita (almeno in tempi recenti). Un programma anomalo, tanto per l’emergenza quanto per la “normalità”.

Il cattolico quasi ottantenne Biden, già vice di Obama, sfiderà perciò il quasi settantacinquenne presbiteriano Trump, dimostrando tuttavia ancora una volta che nel poliedrico mondo dell’associazionismo religioso americano esiste un’idea ampiamente rappresentata e tutto sommato rappresentativa di lobbying politico, organizzativo, dirigenziale.

Sanders peraltro non ritira i propri candidati: vuole eleggere propri rappresentanti, vuole che tra i delegati il voto d’opinione liberal, radicale, ecologista e democratico possa ancora avere un peso specifico. Entrambe le decisioni erano prevedibili. Usiamo espressione “calda” in questi giorni: decisioni perfettamente normali. Il mondo sta vivendo una crisi particolarmente impattante, che coinvolge, tra i vari capitoli, anche l’elettorato attivo e quello passivo (il secondo turno delle municipali in Francia, Paese ben meno colpito degli States, è stato spostato; forse capiterà lo stesso con le regionali in Italia, Stato dove pure il picco sembra ormai alle spalle). Sanders, dopo una fase iniziale in cui lo studio dei comportamenti elettorali ci dimostra chiaramente il buon recepimento della “rumorosità” che crea consenso, era stato rimontato e infine nettamente superato. Come si spiega questa inversione, in una forchetta temporale ridotta e peraltro antecedente alla deflagrazione dei contagi da Covid-19?

Il sistema nord-americano tende normalmente all’autoconservazione: innova quando sente che l’innovatività può essere funzionalizzata alla sua preservazione; negli altri casi è molto più difficile.

È molto nota la battuta, forse ormai destinata ad essere sopravanzata dalla storia, che gira come un motto tra economisti e comparatisti: la cosa più simile al bilancio statale è … il bilancio dell’anno prima. Biden garantisce prudenti riaperture di vertenze sui diritti civili (e, molto più limitatamente, sulla questione sociale) ma non trancia i rapporti con lo stato maggiore del partito da cui proviene. Non è un outsider: è un solare usato sicuro.

La lezione di Parsons

C’è qualcosa che può spiegare questo fenomeno, di empirica rilevabilità, con le categorie dell’analisi teorico-sociale? Tra la fine degli anni Trenta e la metà dei Sessanta uno dei più accreditati studiosi dell’ordine istituzionale statunitense era stato il sociologo funzionalista Talcott Parsons.

Il successo di gran parte di quelle tesi fu spazzato via dalla contestazione e dalle dottrine controculturali che prima la animarono e poi in verità furono riconglobate nelle maglie del sistema. Non è un caso che il più accreditato rivitalizzatore delle proposte di Parsons, Jeffrey Alexander, venga definitivamente riconosciuto come tale dopo il traumatico evento dell’11 settembre – che sollevò una grande fase di riscoperta e di difesa dell’intrapresa comunitaria e, più in generale, della nazione come unione di stati federati.  Lo studio di Parsons, nonostante abbia fondamentalmente meritato molte delle censure oppostegli (l’etnocentrismo, la difesa di un modello meramente vincolistico e riproduttivo di famiglia, il deficit di ricerca sul campo), è di peculiare interesse per i giuristi. In particolar modo, per il giurista che si occupa di diritto delle religioni: per Parsons il diritto e le religioni – meglio: i subsistemi regolativi basati sul diritto e sulla religione – sono integrazioni delle parti che compongono il sistema nel suo complesso.

Normalità ed emergenza

Non solo: la struttura dell’atto (azione sociale), per come individuata dall’A., richiama almeno intuitivamente, se non anche analogicamente, tanto la nozione giusprivatistica di atto quanto quella giuspenalistica di condotta. Si richiede che qualcuno, l’attore, ponga in essere l’azione; che quell’atto abbia uno scopo nella rappresentazione mentale dell’attore; che vi sia una situazione di partenza in cui questi non riesce a incidere sul contesto ambientale; che l’azione abbia un “orientamento normativo”: che corrisponda alla scelta dei mezzi appropriati, secondo un’argomentazione morale socialmente accettata. L’orientamento normativo diventa perciò standardizzazione, convenzione. “Normalità”, appunto.

Parsons, così spesso ridimensionato negli studi più recenti per il suo conservatorismo, ci offre comunque una sociologia dei comportamenti individuali e collettivi che è etnograficamente rivelatrice di una identità geo-storica, oltre che valoriale, di appartenenza. Il modello di famiglia cui guarda, indifferente alla montante secolarizzazione e alla transizione dei costumi sessuali che saranno più visibili dalla seconda metà degli anni Sessanta, è ancora presente nella demografia statunitense. È quel serbatoio di voti, anzi, almeno in parte, che più verosimilmente sceglie l’umorale Trump, e non il moderato Biden. Parsons ha poi un’accezione certamente positiva dell’ordine sociale, ma non si concentra abbastanza sui rapporti di dominio che lo connotano.

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Perché l’aspettativa personale (che forse somigliava in origine all’idea di “diritto come pretesa individuale” elaborata da Bruno Leoni) dovrebbe concludersi nella conformità a una morale eteronoma? E ancora: cosa stabilisce il grado di soddisfazione per le scelte di un esecutivo? Per stare a immagini di questi giorni, Parsons troverebbe giusto alloggiare i senzatetto a distanza di sicurezza tra loro; forse poco si chiederebbe del loro confinamento nei parcheggi sgombri e requisiti. Ma l’ordine sociale è solo ordine? O non è forse una organizzazione sociale vigente che può non riuscire a tamponare più le disfunzioni che la mettono in crisi?

Tornare alla lettura di Parsons, giammai per prenderne evangelicamente gli assunti anche più superati e neanche per fomentarne però il radicale abbandono, ci immette alla domanda che ha dominato queste settimane. Torneremo alla normalità o è la normalità che produce l’emergenza?

Speriamo non siano veri entrambi i poli di questa interrogazione disgiuntiva: avremmo davvero perso la bussola.