by Domenico Bilotti, Italian, exclusive for thediagonales
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È difficile comprendere in che termini la pandemia da Covid-19 abbia cambiato, o non modificato, gli stili di vita planetari.
Gli assertori di una trasformazione radicale osservano con qualche ragione l’impatto sul ripopolamento naturale, il riavvicinamento degli animali (anche quelli considerati e/o considerabili in via d’estinzione) ai contesti urbani, la rapida ripulitura delle acque dolci e salmastre, il calo dei coefficienti nell’inquinamento atmosferico.
Tutto vero nei risultati, illusione ottica (forse) nelle premesse eziologiche: se vengono interrotti o sospesi alcuni processi produttivi impattanti, nel breve periodo il famigerato ritorno della natura è soprattutto eclissi momentanea delle cause inquinanti.
Chi del resto perora l’idea di un virus che non abbia scalfito le strutture portanti dell’assetto socio-economico non può non notare che: a) alcuni tipi della produzione industriale non hanno nemmeno mai conosciuto vere e proprie interruzioni (si pensi all’industria militare); b) le politiche di gestione dei prodotti necessari sono ancora pienamente coerenti al modello neoliberista (produzione rapida, marketing aggressivo, creazione di istanza sociale, serializzazione dello scambio); c) le relazioni diplomatiche tra gli Stati e le politiche interne di ordine pubblico si muovono sempre nel quadro di rapporti di forza non collaborativi.
Possiamo, allora, riformulare il quesito iniziale.
Combattere il virus ci chiama ad aumentare in senso liberal-democratico il kit dei diritti individuali o a restringerli?
La compressione delle libertà associative per placare le ipotesi di assembramento (la suggestione di “folla in tumulto” di cui parla, ad esempio, il Codice penale del mio paese, l’Italia) determina una maggiore consapevolezza nell’esercizio personale delle libertà?
La salvaguardia del reddito, dell’occupazione, degli standard di vita, si realizzerà grazie alla pari difesa dell’economia di mercato o per il tramite di un suo drastico e non indolore superamento?
La verità è che plausibilmente l’epidemia ha parimenti indebolito e rafforzato aspetti diversi della nostra civiltà giuridica e del nostro modo di pensare.
Nella cultura relazionale, il complicato equilibrio tra sospetto e cooperazione, tra etica del profitto ed etica del dono, si sta riscrivendo. Il dono, la gratuità, lo scambio paritetico, anziché occasioni di trasformazione istituzionale di un sistema dato, stanno sempre di più assumendo la forma di strumento sussidiario per alleviare l’emergenza.
La relazione economica profittevole è governata invece secondo procedure di contrattazione sempre più assistita, sempre più costitutivamente asimmetrica (le attività economiche e produttive che riaprono, come riaprono, perché riaprono).
Il confronto tra attori globali dell’ordine mondiale è all’opposto sempre più incanalato nel suo darsi egemonico.
Gli Stati Uniti hanno subito il più drastico attacco alla loro potenza economico-politica; apparentemente, tutte autoctone le ragioni di quella fragilità: l’inesistenza di un circuito sanitario pubblico universale gratuito (l’Obamacare, finalmente capiscono i progressisti europei, non era la terra promessa con cui si baloccavano), la frequenza di relazioni da contatto occasionali e plurime come strumento di aumento della domanda interna. E tuttavia la loro “gendarmeria” sul mondo avveniva dentro un preciso orizzonte di senso, antropologicamente distinguibile da quello dei competitori orientali.
Sul piano dei principi, gli USA restano e sono la cassetta degli attrezzi delle libertà politiche negative (libertà d’espressione, rito accusatorio fortemente competitivo, secolarizzazione dei costumi e natura prevalentemente identitaria geolocale delle convinzioni religiose).
Non sempre più equo il modello proposto altrove, invece ordinato su una costellazione di poteri diretti di intervento statuale (nella centralizzazione delle decisioni economiche, nella contrazione degli spazi di dissenso individuale, sino alla configurabilità di specifici illeciti penali, in una divisione sociale del lavoro dove è ontologicamente preferita la produzione alla vitalità del conflitto sociale).
Se c’è una partita sottesa alla morte di molte persone – chi o cosa detterà i tempi e le norme di una defatigante transizione – l’effetto non paradossale potrà essere quello di togliere ogni orpello alle narrazioni del potere tutte e di restituircele quali sono, fondamentalmente simile e omologhe a sé stesse.
Il guanto di sfida più duro è schiaffato sul viso delle democrazie sociali e del personalismo consapevole. Fragili entrambi: le une rischiano di essere travolte da una polarizzazione dello scambio economico che si fa immediatamente geopolitica; l’altro è attinto da più parti come intralcio a una nuova, ancora enigmatica, ragion di Stato.
Ragion di stato d’eccezione.
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