by Ivan Bissoli, thediagonales Redactor for cinema
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Da bambino ero letteralmente ipnotizzato dal cartone animato anni ’50 Willy il Coyote e Beep Beep. Sarei rimasto a guardarlo per ore e ore ininterrottamente e ad onor del vero, anche oggi di tanto in tanto vado a riguardare qualche spezzone su Youtube! In questi episodi della durata di pochi minuti nella pittorica ambientazione della Monument Valley, il coyote Willy cerca in tutti i modi possibili di catturare un velocissimo uccello tipico della zona, ma nonostante gli eccezionali progetti studiati resta sempre a mani vuote. Seguivo con vivido interesse quei fallimenti ciclici, perché nell’ingenuo approccio di un bambino di 7 anni li percepivo come un condensato di eventi sfortunati, un accanirsi di cattiva sorte nei confronti di Willy, innescando in me un crescente desiderio di puntata in puntata di assistere alla fatidica cattura, ma che puntualmente naufragava in seguito agli insuccessi del coyote.
La cosa che ignoravo, è che a Will di Beep Beep non gli è mai importato proprio un bel niente! Lui in realtà boicottava sé stesso affinché tutti i tentativi fallissero miseramente, perché ovvio che la narrazione del cartone animato si regge sulla creazione dei piani e i successivi fallimenti, ma il Coyote viene investito ripetutamente da quell’effetto di sconfitta simbolico, nient’altro che una gigante sovrastruttura ideologica e architettonicamente ben congeniata da concedersi la possibilità di giustificare sé stesso del mancato raggiungimento dello scopo.
L’essenza principale di questa meravigliosa metafora, si condensa in una scena che viene riproposta in molte puntate: il coyote negli innumerevoli tentativi di catturare Beep Beep si ritrova spesso a correre oltre un precipizio per alcuni metri, ma è solo quando guarda giù che si accorge che ha oltrepassato la terra ferma e cade. Willy, nella finzione del cartone animato, andando ovviamente contro ogni principio fisico, non avrebbe mai saputo dell’esistenza del precipizio e avrebbe continuato a correre nel vuoto senza mai cadere: ma la figura simbolica deterrente è il semplice gesto di “guardare giù”, esso equivale a generare quel anti-mezzo per far implodere su stesso il desiderio, porre in essere una sovrastruttura reale (la gravità) in un mondo iper-reale per uccidere razionalmente la propria “jouissance”.
Sicuramente nella realtà per la forza di gravità sarebbe caduto, ma in una finzione non esistono regole alle quali essere vincolato; poter attraversare due canyon senza cadere sarebbe stata la prova inequivocabile di essere capace di non avere limiti, di poter realizzare tutto senza ostacoli, senza le zavorre interiori create per porre un confine alle nostre capacità; come Morpheus dice a Neo in Matrix “Sei più veloce di così. Non pensare di esserlo: convinciti di esserlo”. Quello che ci viene mostrato ciclicamente è quindi una proiezione di un sogno di Willy, un racconto profondo del suo es capace di creare un universo mendace per giustificarne i ricorrenti fallimenti. Quale sarebbe la logica o la matrice che spinge a creare tutto ciò, nel coyote ma congiuntamente alle nostre esistenze? Semplicemente generare un consumo di energie tali, una quantità di forza uguale e contraria per opporsi al raggiungimento di quel fine.
Chi meglio di David Lynch nel mondo del cinema è stato capace di farci vedere con immagini in movimento le sconfinate profondità della mente umana, creare sceneggiature interiori partendo da un semplice desiderio e trasformarle in una duplice proiezione che viaggia contemporaneamente su più dimensioni? in Mulholland Drive, assistiamo alla storia Diane Selwyn (o se vogliamo Betty) come meglio si preferisce identificarla a secondo della fase del film: nella realtà, Diane assolda un killer professionista per uccidere l’amante Camilla, rea di averla lasciata dopo le lusinghe di un noto regista cinematografico di Hollywood (Adam) per vivere con lui.
Devastata psicologicamente da questo evento, e come spesso accade alla ricerca di un anestetizzante per lenire le proprie sofferenze, si rifugia, si trincera all’interno di un racconto onirico dove attraverso le sue proiezioni crea una narrazione parallela diventando Betty. Camilla (che nel sogno diventerà Rita) è una donna che dopo un violento scontro frontale in auto sulla Mulholland Drive a Los Angeles, si risveglia smarrita e senza memoria nascondendosi impaurita all’interno di una casa nei pressi della zona dell’incidente. Quella casa si rivelerà essere il punto di incontro “casuale” delle due donne, essendo di proprietà della zia di Betty, dove la stessa è appena arrivata per trascorrere un periodo di tempo che gli consenta di fare alcuni provini nel cinema grazie alle conoscenze altolocate della zia.
Prende forma una realtà parallela dove la protagonista fa confluire sotto forma di compensazioni immaginarie tutte le frustrazioni causate dalla separazione sentimentale: Betty fantasticando crea situazioni idilliache nella quali dopo appena un provino viene apprezzata da attori e registi di fama internazionale, dove il regista che nella realtà si intromette nella sua relazione con Camilla patisce sciagure inimmaginabili ma soprattutto dove prima si prende cura di Rita reduce dall’incidente stradale e poi vive la sua passione amorosa con lei. Tutto però inesorabilmente finisce; la storia fantastica termina e riporta la protagonista nella scomoda e inaccettata realtà. Allora Lynch come nella sua serie Twin Peaks cala il classico “sipario rosso”, asserzione dell’evidenza simbolica che il tutto avviene nell’inconscio della donna, e nella scena del Club Silencio mostra a Diane che sta vivendo la sua finzione: un uomo arriva sul palco è dice “No hay banda”, non c’è nessuno che suona eppure riusciamo a sentire della musica, “è solo un’illusione!”. Entra una donna ed inizia a cantare: ha una voce meravigliosa, struggente, malinconica; il coinvolgimento è incredibile, il pathos arriva ad un livello superiore sublimando la carica emotiva della protagonista stessa che durante la visione dello spettacolo ha spasmi corporei quasi ad indicarle degli imminenti cambiamenti. La cantante cade a terra, entrano in scena due uomini che la rialzano e la portano via dal palcoscenico quasi come una sequenza scritta su un copione, ma la straordinaria voce continua a diffondersi nel teatro.
Dove termina la finzione e dove si comincia ad essere parte integrante degli eventi generati inconsciamente? La dislocazione su vari livelli della percezione della realtà, crea quel conflitto che, se non associato con una adeguata analisi introspettiva, dà origine inevitabilmente ad un drammatico distacco tra i nostri attori provocando una dissonanza comportamentale che può sfociare come nel caso del film di Lynch (cosa assolutamente non rara oggi) nello sganciamento dalla realtà rimanendo alla mercé di un simulacro.
Richiamando un concetto espresso precedentemente su Videodrome di David Cronenberg: “L’estensione della realtà diventa il mezzo attraverso il quale si plasma la nuova idea di supporto” (https://www.diagonales.it/cinema-e-desiderio-1-la-scabrosa-mutazione-il-corpo-transitato-da-soggetto-a-simulacro-biologico/).
L’agire dei personaggi raccontati ritrae quindi un flusso di pensieri mitigati dall’immaginario collettivo, ma ammonisce Georges Bataille ne Il Labirinto: “Colui che è posseduto da un bisogno di creare non fa che provare il bisogno di essere uomo. Ma egli rinuncia a questo bisogno se rinuncia a creare qualcosa più che fantasie o menzogne. Non resta virile che cercando di rendere la realtà conforme a ciò che pensa: ogni forza in lui reclama di sottomettere al capriccio del sogno il mondo mancato nel quale è sopraggiunto.”
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